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Non esiste la fiducia che si possa andare avanti passo dopo passo. Anche quando parzialmente accade bisogna dire che non è vero. È tornata l’Italietta con il monarca del regno campano De Luca che può prendere decisioni di cui non ha né poteri né ruolo sfidando platealmente il governo che impugna il provvedimento. Nessuno dice che nella scuola italiana sono stati fatti investimenti come non mai, assunti in ruolo 60mila nuovi docenti e altrettanti di sostegno, che la piattaforma informatica funziona alla perfezione, che gli screening sui tamponi procedono, che le aule sono rimaste aperte in tutta l’estate soprattutto al Sud e non si è perso un giorno di scuola da ottobre. Che tutti i problemi sono emersi ora che le scuole sono chiuse. Che la riapertura in presenza è sottoposta a precise regole di sicurezza per cui ci si ferma in determinate situazioni, anche questo viene ignorato

Abbiamo fatto la Germania per dieci mesi, ma moriamo dalla voglia di tornare a fare l’Italia. Moriamo dalla voglia di tornare a essere il Paese dove nessuno si fida che i problemi possono essere risolti uno alla volta. Perché bisogna dire che va tutto male, che non ce la possiamo fare, e magari aggiungere che l’unica cosa che ti dà soddisfazione è dire che arriverà il paradiso terrestre. Che tutti ovviamente sanno che non è possibile, ma vogliono sperare in una cosa grande perché è così grande da non disturbare l’abito mentale e il dibattito pubblico quotidiani della lamentazione. Non esiste la fiducia che si possa andare avanti passo dopo passo diventando l’economia che cresce di più in Europa, che ha tenuto aperte le scuole mentre gli altri le chiudevano, che è capace di fare gli investimenti e, una dopo l’altra, tutte quelle riforme di struttura che consentono di stabilizzare una crescita meno diseguale. Anche quando parzialmente accade bisogna dire che non è vero. Perché questo tipo di fiducia non esiste costitutivamente in quanto nel Paese prevale una sfiducia di fondo più contagiosa di Omicron che non si può cambiare nulla.

Per cui guai se chiudiamo i ristoranti, ma le scuole in Campania vanno chiuse perché così con i tassi di abbandono e di dispersione scolastica già doppi della media nazionale i ragazzi li consegniamo direttamente alla delinquenza e abbiamo risolto il problema. Perché dopo due anni con problemi di tutti i tipi abbiamo la faccia tosta di riproporre la didattica a distanza che in alcuni territori è il nulla per una serie di ragioni individuali, familiari e di ritardo strutturale informatico dell’area.

Siamo tornati il Paese Arlecchino di sempre dove il monarca del regno campano De Luca può prendere decisioni di cui non ha né poteri né ruolo sfidando platealmente il governo che impugna il provvedimento. Dovesse mai perdere magari solo per qualche mese il podio più alto dei grandi feudatari regionali che non sanno fare un investimento, buttano i soldi europei, assumono a spese del bilancio pubblico italiano gli amici degli amici rigorosamente incompetenti, e ora vogliono anche consegnare alla analfabetizzazione e al disadattamento psicologico un’intera generazione di ragazzi.

Se poi ti passa per la testa che queste polemiche strumentali servono a fare passare in cavalleria il disastro della sanità regionale campana e che si vuole riproporre l’ennesimo conflitto istituzionale tra Stato e Regioni e strappare sottobanco il via libera al terzo mandato consecutivo ci rendiamo conto che l’Italietta di sempre ha rialzato la testa e vuole tornare alla grande. D’altro canto che nella scuola italiana sono stati fatti investimenti come non mai, sono stati assunti in ruolo 60mila nuovi docenti e altrettanti di sostegno, che la piattaforma informatica funziona alla perfezione, che gli screening sui tamponi procedono in maniera tutto sommato ordinata, comunque soddisfacente, questo non lo dice nessuno.

Che la scuola è rimasta aperta soprattutto al Sud tutta l’estate e che non si è perso un giorno di scuola da ottobre e che tutti i problemi sono emersi ora che le scuole sono chiuse, anche questo non dice nessuno. Che la riapertura in presenza è sottoposta a precise regole di sicurezza per cui ci si ferma in determinate situazioni, anche questo viene ignorato.

Volete impedire a una pattuglia di presidi sindacalizzati e al loro rappresentante unico, che aveva detto che mai e poi mai si sarebbe potuta riaprire la scuola a ottobre, di rifare oggi lo stesso numero con la riapertura dopo le vacanze? Impossibile, perché il prototipo di preside che rappresenta, che per fortuna non è la maggioranza, è quello di chi non vuole rogne, che non si vuole prendere responsabilità, che l’unica cosa che non vuole perdere è lo stipendio e se può prenderlo senza lavorare è ancora meglio. Siamo di fronte a comportamenti vergognosi. Non c’è altro modo per definirli. Siamo alla caratteristica tipica di questo Paese che è quella di una comunità che davanti alla prima difficoltà tende a disgregarsi automaticamente. Che o ha una sorta di “costrizione” e è capace di fare cose che non fa nessuno o, in assenza della “costrizione”, si sfrangia perché riparte il meccanismo naturale.

Questo sfaldamento sotterraneo del tessuto istituzionale e sociale italiano, figlio dell’alleanza storica partiti-Regioni-corporazioni che ha spaccato in due il Paese condannandolo per venti anni alla crescita zero, ha già oggi ricadute significative non solo sulle scelte del Quirinale, ma proprio sulla vita delle persone, sulla tenuta dell’economia, sulle ragioni di lungo periodo della lotta alle diseguaglianze territoriali, generazionali e di genere. Questa è la realtà. Perciò fa bene Draghi a convocare la conferenza stampa di domani per spiegare perché si è scelto l’obbligo di vaccinazione per gli over 50, perché la scuola deve rimanere aperta, perché bisogna tenere alta la guardia sugli stadi. Il senso complessivo di un provvedimento votato all’unanimità dopo una lunga cabina di regia e un lungo consiglio dei ministri. Facendo, tra un distinguo e l’altro dei signori dei partiti con defezioni più o meno illustri, le cose che si possono fare, quelle che servono e che non vengono bloccate in parlamento. Insomma, con questi partiti si fanno le cose che sono possibili e se ne sono fatte molte.

Il punto vero, però, della malattia italiana è questo sfaldamento delle istituzioni della politica, partiti e Regioni, e delle corporazioni che fiutano l’aria e rialzano la testa. Quando succede questo il Paese tende naturalmente alla disgregazione, i capi delle Regioni riprendono a fare quello che hanno sempre fatto perché percepiscono che il Paese si era messo una maglia contenitiva e lavorava per il cambiamento, ma che questa maglia non è più così rigida. Possono farcela a rinviare sempre tutto e magari a strappare anche qualche concessione clientelare in più.

Diciamocela tutta. Appena la maglia contenitiva si allenta un po’ perché la politica non trattiene più i suoi vizi, allora la disgregazione riparte. I virologi alla Burioni fanno i politici e disquisiscono di temi di cui non capiscono niente e i politici tornano a fare i virologi in gara tra di loro. I capi delle Regioni decidono da capi di stato. I capi dei partiti dimenticano l’interesse nazionale e ragionano solo con i sondaggi alla mano. E non manca neppure chi comincia a dire che si fanno girare soldi per destabilizzare l’Italia, che bande estreme internazionali sono all’opera, che un’Italia come la Germania fa paura. Fantapolitica, forse. Quello che di sicuro non è fantapolitica è che lo spread è come una pentola a pressione, se salta il coperchio il botto, quello vero, si fa in un colpo solo.

A quel punto, per l’Italia le cose si mettono male. Il Paese non può perdere la sua garanzia di credibilità internazionale che si chiama Mario Draghi e Draghi stesso deve usare allo stremo la pazienza del grande servitore di Stato perché gli altri non avvertano cedimenti nell’azione di indirizzo e di comando.  A palazzo Chigi oggi e, eventualmente, domani. Al Quirinale se la politica avrà l’intelligenza di chiamarlo alla nuova responsabilità. È bene, però, che partiti, capi delle Regioni, uomini delle corporazioni capiscano prima di tutto che senza questa azione ferma e riconoscibile l’Italia ha perso in partenza.


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