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Il presidente del Consiglio Mario Draghi

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Tutto il mondo anglosassone sposta i suoi capitali dalla Spagna all’Italia perché ha fiducia
in Draghi e nel suo Recovery Plan, ma la politica italiana si accapiglia su quota 100 e superbonus facendo una fatica mostruosa a misurarsi con le riforme strutturali del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Che deve sollevare dal burrone in cui è precipitata l’economia italiana negli ultimi 20 anni spogliandosi di ogni capacità progettuale ed esecutiva. Tutti, ma proprio tutti, dobbiamo ricordarci che per pagare stipendi e pensioni a statali, dipendenti regionali, provinciali, comunali lo Stato deve collocare quest’anno quasi 600 miliardi di titoli pubblici pagandone 57 solo di interessi abbassati peraltro dal coperchio della Bce. Senza cambiare e tornare a investire non ci salviamo

IL DITO e la luna. Siamo fermi senza senso del ridicolo sulle tre righe di quota 100 perché il Paese che ha un debito pubblico pari al 159,8% del Pil vuole continuare a mettere sul conto della collettività l’assegno mensile di chi va in pensione a 62 anni. Facciamo ancora più rumore sul Superbonus dell’edilizia che costa 10 miliardi l’anno e viene presentato sganciato da qualsivoglia disegno di riforma fiscale.

Tutto il mondo anglosassone, come abbiamo anticipato ieri, sposta i suoi capitali dalla Spagna sull’Italia perché ha fiducia in Draghi e nel suo Recovery Plan, ma la politica italiana fa una fatica mostruosa a misurarsi con un Piano nazionale di ripresa e di resilienza che deve sollevare dal burrone in cui è precipitata l’economia italiana negli ultimi venti anni.

Abbiamo un problema strutturale a capire che se non facciamo con la macchina degli investimenti pubblici e la pubblica amministrazione l’esatto contrario di quello che abbiamo fatto negli ultimi vent’anni non andiamo da nessuna parte. Abbiamo una difficoltà strutturale a capire che se non iniettiamo dosi massicce di digitale intelligente nella amministrazione non ridurremo mai i tempi della giustizia civile. Abbiamo una difficoltà strutturale a capire che il tempo delle chiacchiere è finito per sempre e che la legge annuale della concorrenza dobbiamo farla e dobbiamo mettere nero su bianco quando diventerà operativa la riforma dei sevizi pubblici locali, del commercio e delle concessioni.

A domanda rispondi: in quale trimestre dell’anno, con quale effetto nel contesto, stato di avanzamento per stato di avanzamento. Riforma per riforma. Opera per opera. Fatti, non parole. Fatti riscontrabili. Per questo servono una governance tecnica e una governance politica che siano di rottura totale con quello che è avvenuto fino a oggi. Per questo gli azionisti politici del governo di unità nazionale si devono fidare di Draghi. Perché questo è il tipo di negoziato in essere e perché queste resteranno le modalità di negoziazione da qui al 2026. Perché, in estrema sintesi, al di là delle favole raccontate in Italia i soldi europei a noi assegnati sono il frutto esclusivo dell’applicazione algebrica dei parametri dell’articolo 174 del regolamento comunitario che ha come obiettivo prioritario l’adeguamento e il rilancio delle zone marginali. Sono il frutto, insomma, di un meccanismo analitico per dare all’Italia il massimo di aiuto possibile ma a condizione che questi soldi in parte gratis in parte a tassi di favore siano “pagati” dimostrando di essere capaci di spenderli bene e di fare allo stesso tempo le riforme strutturali che da vent’anni non abbiamo mai voluto fare.

Condannandoci al declino facendo sistematicamente molto peggio di Francia, Germania e Spagna in termini di Pil, produttività, occupazione. Con una macchia addirittura etica nell’avere chiuso gli occhi di fronte a una divaricazione di reddito tra le due Italie che coincide con la nascita di due Paesi distinti proprio per difendere quella inerzia assistenziale che è il segno più lacerante del riformismo inconcludente italiano.

Diciamo la verità. Noi ci presentiamo a questo appuntamento con la storia nudi. Venti anni di federalismo irresponsabile hanno spogliato l’intero Paese di ogni capacità progettuale e esecutiva perché tutto è stato sgretolato nella frantumazione decisionale e nell’ingorgo di grandi e piccole clientele. Per sei lunghissimi anni nel Mezzogiorno non abbiamo progettato nulla, ma non crediate che il Nord a parte alcune eccezioni stia messo meglio. Se il Comune di Legnano, come moltissimi Comuni della Lombardia, non riesce neppure a ricevere imprenditori per esaminare i loro progetti da presentare all’esame del Next Generation Eu, vuol dire che siamo messi davvero male.

Abbiamo un drammatico, strutturale, problema di progettazione e di capacità esecutiva. Credo che in Parlamento la prossima settimana o più tardi se le negoziazioni difficili faranno slittare i tempi dell’approvazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza si imporrà per Draghi di parlare senza mediazioni o aggiustamenti tattici il linguaggio della verità. Lo stesso linguaggio che ha usato ieri con la Von der Leyen caricandosi lui la responsabilità di garantire ciò che le carte e le mediazioni politiche evidentemente ancora non garantivano. Deve fare capire una volta per tutte ai signori della politica e ai viceré regionali che si devono prendere un anno sabbatico perché in questi dodici mesi chi ha la responsabilità di governare il Paese li deve impegnare tutti a generare la progettualità e a garantirne la difesa in Europa e in casa. Deve ricostruire le fondamenta del palazzo perché non si può più pensare di aggiustare le cose tra un piano e l’altro.

È l’intero palazzo che traballa. Altrimenti, è bene che si sappia, andiamo a sbattere. Andremo a finire che a un turismo, un commercio e un artigianato in ginocchio, si aggiungeranno tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici che avranno difficoltà a incassare i loro salari o che, perlomeno, li vedranno fortemente ridimensionati.

A “domanda, rispondi” non con la decrescita felice e il pollaio della politica italiana ma con progetti seri, fatti bene, realizzati bene, costruiti dentro gli obiettivi delle missioni strategiche in un “contesto” di Paese che cambia dalla testa ai piedi. Che può tornare ai tempi d’oro della convergenza tra Sud e Nord come ai tempi della Cassa del Mezzogiorno nel dopoguerra, ma a patto che faccia le scelte giuste e assuma insieme determinati comportamenti (di cui parliamo bene domani) sfruttando un’apertura di credito strameritata oggi come ieri, ma onestamente sempre negata addirittura per trenta lunghissimi anni consecutivi.

Tutti, ma proprio tutti, dobbiamo ricordarci che viviamo in un Paese che per pagare stipendi e pensioni a statali e dipendenti regionali, provinciali, comunali deve collocare quest’anno quasi 600 miliardi di titoli pubblici pagandone 57 solo di interessi che sono peraltro abbassati dal coperchio della Bce sui tassi. Cerchiamo di capire che l’alternativa al fallimento del governo di unità nazionale a guida Draghi non è un altro governo ma il default dell’Italia. Perché non è vero che gli Stati non falliscono. Soprattutto, nei giorni del nuovo ’29 mondiale.


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