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Talebani in Afghanistan

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Il G7 si è aperto ieri con il botto. Una notizia sul Washington Post che doveva restare “segreta” ma che tutti dovevano sapere: il direttore della Cia, William Burns, ha incontrato a Kabul il capo dei talebani, il Mullah Abdul Ghani Baradar, presidente in pectore dell’Afghanistan.

Non diversamente dai regimi autocratici che gli Usa criticano, l’amministrazione americana usa i giornali e i media per far sapere le cose che non vuol dire ufficialmente ma rendere ufficiali: i talebani sono ormai riconosciuti da Washington ai più alti livelli. L’ufficialità è una questione di tempo e di dettagli legata probabilmente alle concessioni che faranno i talebani sull’estensione del ponte aereo e il ritiro delle truppe straniere da Kabul.

Ma abbiamo già una certezza: se anche si riuscisse a estendere l’ultimatum dei talebani oltre il 31 agosto, gli Usa e la Nato abbandoneranno al loro destino gran parte degli afghani che hanno collaborato con gli occidentali in questi due decenni. Lo ha ammesso ieri il ministro della Difesa britannico Wallace che ha versato lacrime di coccodrillo: questi sono degli ipocriti che avevano davanti perfettamente la situazione, così come gli americani.

La notizia dell’incontro non può stupire se non gli sprovveduti politicanti e analisti di casa nostra che per giorni hanno detto e scritto stupidaggini del tipo “non bisogna trattare coi talebani”. Sono gli stessi che battono la grancassa quando il tagiko Massud proclama la resistenza ai talebani: sta negoziando con Kabul la sopravvivenza sua e della sua gente che rischia di vedere tagliate tutte le vie di rifornimento.

Gli americani e i talebani si conoscono perfettamente avendo negoziato per due anni a Doha. Baradar è una creatura degli Usa: il Mullah era stato arrestato nel 2010 in Pakistan e sono stati proprio gli Stati Uniti a chiedere la sua scarcerazione a Islamabad nel 2018. Si può quindi affermare che quello tra Burns e Baradar sia stato un incontro tra vecchie conoscenze. Probabilmente i due avrebbero voluto che avvenisse in circostanze diverse ma il crollo delle forze afghane, che si sono arrese senza combattere, ha prodotto una situazione terrificante.

In realtà gli Usa volevano andarsene dall’Afghanistan alla chetichella sapendo quanto sarebbe successo. Come settimane fa avevamo segnalato su questo giornale gli Usa se ne erano andati di notte dalla base di Bagram (già centro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989): in poche ore nel cuore pulsante dell’invasione Usa non restava nulla, neppure l’acqua e luce per la prigione. Gli americani l’avevano abbandonata così all’improvviso che tanta gente era entrata nella base rubando quel che poteva prima che arrivassero i talebani. I russi quando si ritirarono lo fecero via terra, di giorno, sotto gli occhi della popolazione e dei reporter di tutto il mondo.

Definire la conquista talebana dell’Afghanistan “improvvisa” e “inaspettata” è un insulto alla moltitudine di osservatori – americani e altri – che hanno raccontato la graduale implosione dell’Afghanistan negli ultimi anni. I talebani controllavano il 40 per cento del Paese già sette-otto anni fa, come si può leggere in qualunque articolo di giornale minimamente informato. Non a caso si definiva allora il presidente Karzai il “sindaco” di Kabul, talmente era limitato il suo potere.

Burns era consapevole del disastro imminente. Il 23 luglio il direttore della Cia ha affermato che i talebani erano “probabilmente nella posizione militare più forte in cui si trovano dal 2001” e ha riconosciuto la possibilità che “il governo afghano potesse cadere con l’avanzata dei talebani”. Più chiaro di così…

Burns stava esprimendo quella che era chiaramente l’opinione della maggioranza tra gli analisti della comunità dell’intelligence statunitense, che, entro il 16 luglio, stavano costantemente dipingendo “un quadro desolante dell’avanzata accelerata dei talebani attraverso l’Afghanistan e della potenziale minaccia che rappresenta per la capitale di Kabul”, avvertendo che presto avere una stretta strangolamento su gran parte del paese sulla scia del ritiro delle truppe statunitensi”.

Il 22 luglio, il generale Mark Milley, presidente del Joint Chiefs of Staff, ha fatto eco alle parole di Burns, avvertendo il Congresso della “possibilità di una completa acquisizione dei talebani” dell’Afghanistan, in seguito al ritiro delle truppe americane. Insomma se uno va leggere le carte e le più recenti di dichiarazioni dei capi americani era evidente la loro consapevolezza del disastro imminente. Perché non hanno fatto niente? Perché agli americani e a noi dell’Afghanistan non importa quasi nulla e restituirlo ai talebani costa molto meno che continuare a starci.

Così adesso stiamo davanti alla tv dove mostrano i marines che danno da bere ai bambini, sono gli stessi soldati americani e occidentali che in 20 anni hanno fatto 71mila vittime civili nei raid aerei. L’Occidente vuole essere “buono” e umanitario, in realtà ha ancora uno sguardo da colonialista sugli altri. Ci sentiamo superiori quando gli aiutiamo dopo averli uccisi. E ci commuoviamo pure. Ipocriti.


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