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«Un tentato omicidio della costruzione europea»: l’acerba definizione del famoso Patto di stabilità è di Gustavo Piga. E ci sarebbe molto su cui essere d’accordo, anche se forse il tentato omicidio dovrebbe essere derubricato in “preterintenzionale” o “colposo”. Ma, naturalmente, molti non sarebbero d’accordo e guardano con sospetto a ogni tentativo di allentare il rigore del Patto. Il dibattito sulla riforma del Fiscal Compact (la nuova veste del Patto) si è acceso in questi mesi, adesso che il “liberi tutti” dettato dall’emergenza sanitaria dovrà cedere il passo a una pensosa rivisitazione delle regole.

Da una parte stanno gli strenui difensori del rigore, i cosiddetti “frugali”. Non c’è una definizione ufficiale dei Paesi frugali: di solito si pensa al sestetto Germania, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia. Dall’altra parte stanno i non-frugali (o, come li chiamava Dante nel VII dell’Inferno, i “prodighi”): convenzionalmente, sarebbero i Paesi del Sud-Europa, dal Portogallo alla Grecia o, come erano chiamati un tempo, i Paesi del Club Mediterranée (ma il ministro degli Esteri portoghese si ribellò a quest’ultima definizione, osservando, giustamente, che il Portogallo non ha niente a che fare col Mediterraneo).

IL DIALOGO TRA RIFORMISTI E CONSERVATORI

Questa distinzione fra frugali e non ha ormai poco senso, se si guarda ai dati del deficit: prima della crisi sanitaria i disavanzi pubblici dei Paesi del Sud-Europa stavano tutti sotto il famoso 3% del Pil (e Grecia e Portogallo avevano perfino un bilancio in surplus). Ma le differenze fra difensori e detrattori del Patto continuano. È vero, sia i riformatori che i conservatori hanno qualche freccia al proprio arco.

Vediamo, allora, quale potrebbe essere un dialogo fra quelli che vogliono riformare (R) e quelli che vogliono conservare (C).

R: Lo aveva già detto, in tempi non sospetti, un ex-presidente della Commissione Ue, Romano Prodi: il Patto di stabilità è “stupido”. Perché insistere nella stupidità? Errare humanum est, sed perseverare diabolicum…

C: Veramente, Prodi aveva detto che il Patto è stupido ma necessario. Vi siete mai chiesti perché è necessario?

R: Certo che ce lo siamo chiesti. A quei tempi il Patto era necessario perché i Paesi “seri”, come la Germania, volevano che le finanze pubbliche fossero imbrigliate da regole severe, non volevano che un Paese “non-serio”, come l’Italia, indulgesse in allegri deficit pubblici che avrebbero messo a repentaglio la pratica e la grammatica della moneta unica.

C: E non è questa una buona ragione?

R: Certo che è una buona ragione. Ma il Patto era “stupido” perché inflessibile. Stabiliva regole, appunto, severe e senza spazio per adattamenti.

C: Quelli che voi chiamate “adattamenti” sarebbero stati in realtà degli escamotage per continuare a spendere e spandere.

R: E che cosa c’è di male a spendere e spandere? Toglietevi dalla testa quell’ossessione teutonica del “Schuld=debito=colpa”. Il problema col Patto è che fu concepito per tenere sotto controllo finanze pubbliche malate, non economie malate. Quando le “malattie” colpiscono l’economia, l’applicazione delle regole del Patto diventa non solo inutile ma dannosa: si gira il coltello nella piaga. Perseguire politiche di austerità quando l’economia va male, la fa andare ancora peggio. È quello che successe dopo la crisi da debiti sovrani, quando i grandi sacerdoti del Patto insistevano sul rientro di deficit e debiti in presenza di economie in affanno.

C: Non potete dire la stessa cosa con la crisi da coronavirus. Il Patto ha retto.

R: Ha retto perché è stato messo in frigorifero.

C: Appunto. Il che vuol dire che il Patto non era così stupido e inflessibile come i detrattori lo volevano.

R: Le eccezioni sono cominciate con la Grande recessione e dopo. In molti Paesi i governi che volevano aiutare le economie hanno dovuto scalpellare con abilità la roccia, fortunatamente porosa, del Fiscal Compact. Fino a che l’intero Patto o Fiscal Compact o TwoPack o SixPack, come recitano le innumeri incarnazioni delle regole, non sono stati messi in stasi, con l’avvento della crisi da virus.

C: Le ragioni primigenie delle regole non sono sparite. Ci vogliono ancora delle linee-guida per il risanamento delle finanze pubbliche.

R: Quella frase “risanamento delle finanze pubbliche” ci preoccupa. Perché non preoccuparsi prima di tutto del “risanamento delle economie”?

C: Perché mens sana in corpore sano. Un’economia sana ha bisogno di un bilancio pubblico sano, libero dalle pastoie dei deficit che fanno salire senza fine il debito pubblico.

R: Allora, i deficit sono delle pastoie? Voi soffrite di quel che gli inglesi chiamano fallacy of composition, cioè quell’errore che consiste nel pensare che quel che è vero per una parte è vero anche per il tutto. Disavanzi e debiti sono esiziali per un singolo, per una famiglia, ma non per il Paese intero. Ci sono circostanze in cui deficit e debiti sono la medicina giusta per risanare l’economia. Il bilancio pubblico è al servizio dell’economia e non viceversa.

C: Ma ci sono anche circostanze in cui governi irresponsabili cercano facili consensi elettorali a spese del bilancio pubblico.

R: Questo è vero, ma allora qual è la risposta giusta? Tenersi delle regole severe ma facili da dimenticare quando le circostanze cambiano? O stabilire delle linee-guida generali, lasciando a ogni Paese la responsabilità di applicarle e adattarle ai bisogni del Paese, in un’ottica di sostenibilità del debito? Prendiamo, per esempio, l’insana posizione di quelle ingiunzioni del Fiscal Compact che stabilivano un rientro dal debito verso il 60% del Pil, con un cammino serrato che obbligava in pratica a un’austerità permanente. Oggi il debito è più sostenibile di prima, dati i bassi tassi di interesse.

C: Veramente credete che i tassi resteranno bassi per sempre?

R: Confessatelo: quello di cui avete veramente paura è altro. Pensate che, con i grandi disavanzi pandemici si sia aperto un vaso di Pandora, e la gente d’ora in poi penserà che basta finanziare la spesa pubblica con moneta creata dal nulla per rendere tutti contenti. E allora volete mettere di nuovo il guinzaglio delle regole per far capire al popolo bue che non ci sono pasti gratis.

C: Sarebbe un buon insegnamento. Non ci sono pasti gratis.

R: E invece ci sono. È singolare che, ottant’anni e passa dopo il famoso apologo di Keynes (per sostenere l’economia, sotterrate bottiglie piene di soldi e dite alla gente di scavare) dobbiamo ancora sentir bruciare sulla pelle il già menzionato “Schuld=debito=colpa”. Sì, i tassi non resteranno così bassi per sempre. Ma il nemico pubblico numero 1 non è il debito, è la scarsa crescita. Preoccupiamoci di quella. Non è il debito a intralciare la crescita, sarà questa a curare il debito.


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