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Lo scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh e l’auto su cui viaggiava

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Il Mossad, dalle nostre parti, ha in mano la pace e la guerra. Non c’è neppure bisogno delle prove iraniane per attribuire al Mossad l’uccisione dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh. Lo dicono tutti i maggiori media israeliani e gli abbondanti precedenti: i servizi dello Stato ebraico, in collaborazione con gli americani e l’opposizione clandestina interna dell’Mko finanziata da Usa e Israele, hanno fatto fuori almeno quattro-cinque scienziati iraniani nell’ultimo decennio.

Nel 2010 Usa e Israele hanno attaccato con un virus informatico micidiale, denominato Stuxnet, l’impianto nucleare di Natanz mettendo fuori uso circa 500 turbine. Soltanto nel 2020 Israele ha danneggiato con varie esplosioni la centrale di Parchin, ancora una volta quella di Natanz e pure quella di Isfahan.

IL DOPPIO STANDARD

Sarebbe utile ricordare che con l’accordo sul nucleare del 2015 voluto da Obama e stracciato da Trump nel 2018, su pressione di Israele e delle monarchie del Golfo, gli impianti iraniani erano sottoposti a regolari ispezioni da parte dell’Aiea. L’Iran ha firmato tra l’altro il Tnp, il trattato di non proliferazione nucleare, mentre Israele, che ha la bomba atomica, al contrario di Teheran, non ha mai aderito a nulla. Lo Stato fuorilegge sarebbe quello ebraico, non la repubblica islamica iraniana. Ma vige la regola del doppio standard: Israele fa quello che vuole, mentre agli altri vengono imposte le sanzioni. E anche questa volta, come in passato, nessuno osa protestare in Occidente contro i metodi del Mossad: c’è una sorta di perenne sudditanza nei confronti dei governi di Tel Aviv cui tutto è concesso. È evidente che adesso con queste azioni Israele, d’accordo con Trump, voglia rendere assai difficile l’agenda del nuovo presidente Biden che si è già espresso sulla possibilità di riprendere i negoziati con l’Iran voluti da Obama, di cui lui era il vice.

Certo, per fare un accordo bisogna essere in due e gli iraniani sono disponibili a trattare, come logico, soltanto se Washington leverà le sanzioni e se finiranno gli omicidi mirati che in genere l’Occidente definisce atti di terrorismo. Così come era un atto terroristico l’uccisione del 3 gennaio scorso a Baghdad da parte dei droni americani del generale iraniano Qassem Soleimani. Pensate cosa sarebbe successo se fosse accaduto a un generale americano…

LA SPY STORY

Intanto i destini della diplomazia internazionale sono in mano al Mossad. «Se qualcuno viene per ucciderti, alzati e uccidilo per primo», recita una frase del Talmud, il testo fondamentale dell’ebraismo. E fin dalla sua nascita, nel 1948, Israele ha fatto di questo insegnamento la propria parola d’ordine, forse a causa del trauma della Shoah e della sensazione, condivisa dai suoi leader e cittadini, che il Paese e l’intero popolo ebraico siano in costante pericolo di annientamento. Per cui il Mossad ha una licenza di uccidere di cui non gode nessun servizio al mondo. E nessun Paese al mondo, se non Israele, gode di altrettanta impunità. Mai Israele è stata condannata o sottoposta a sanzioni per queste sue attività letali. Il maggior esperto del Mossad, il giornalista israeliano Ronen Bergman, ritiene che il Mossad abbia ucciso almeno 2.700 persone in tutto il mondo: una cifra che non è mai stata smentita da nessun governo di Tel Aviv. Immaginate se i servizi di qualunque altro Stato avessero condotto all’estero in questi decenni operazioni mortali del genere, cioè omicidi mirati, come ha fatto Israele: probabilmente non sarebbe più da un pezzo sulla mappa. Nei meandri dei servizi segreti israeliani si è addentrato proprio l’analista militare Ronen Bergman, che per anni come inviato del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha cercato di penetrare la pesante cortina di riservatezza che avvolge l’attività del Mossad, dell’Idf (le forze di difesa) e dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interna). Scontrandosi a ogni passo con la rigida censura militare e con una scontata omertà, Bergman ha realizzato centinaia di interviste e raccolto materiale scottante. Grazie alle sue fonti – uomini di Stato quali Shimon Peres, Ehud Barak, Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, capi di agenzie di intelligence, ma anche molti agenti operativi che hanno chiesto l’anonimato – ha ricostruito nel dettaglio le tante operazioni volte a contrastare l’intifada palestinese o a eliminare personaggi di spicco di organizzazioni come Hamas, Hezbollah o il Movimento per il Jihad islamico in Palestina.

Come in un’autentica spy story, fra intercettazioni, travestimenti e agguati mortali di spietata temerarietà, costati la vita anche a cittadini innocenti, il libro di Bergman “Uccidi per primo” racconta le fasi cruciali e le sofisticatissime tecniche di una campagna di esecuzioni extragiudiziali (senza tacere i brucianti interrogativi etici che essa pone) la cui escalation ha plasmato il volto attuale di Israele, del Medio Oriente e del mondo intero. Bergman è un cronista preciso e dettagliato che non cede alla facile esaltazione dei servizi israeliani. Sostiene che anche il Mossad sbaglia e a volte è guidato da impulsi come il desiderio di vendetta, la rabbia o la vanità. Nel 2011 il capo di staff delle Forze armate lo ha accusato di essere una spia e uno degli uomini del Mossad che ha tentato di contattare gli ha risposto: «Disprezzo chiunque ti abbia dato il mio numero di telefono, proprio come disprezzo te».

L’INCUBO DEI PAESI ARABI

Ma il lavoro di Bergman spiega perché il luogo comune corrisponde al vero e quindi perché il Mossad gode di una fama leggendaria di servizio segreto capace di compiere operazioni impossibili. E spiega anche perché nei circoli dell’establishment di alcuni paesi arabi e dell’Iran – dove la paranoia viene considerata una qualifica professionale e non una malattia – in così tanti sono nevrotizzati dall’esistenza dei servizi segreti israeliani e sono spinti ad attribuire qualsiasi fatto della vita e del mondo a una loro macchinazione. In realtà non c’è nessuna paranoia. Ormai è sempre più complicato distinguere tra un tempo di pace e un tempo di guerra, tra un esercito avversario in uniforme regolare e un nemico letale in abiti civili: tutto questo oggi suona come un esercizio obsoleto, anche se non dovrebbe. Siamo di fronte a guerre che non finiscono mai, come dimostra anche l’uccisione dell’ultimo scienziato iraniano. Con un’unica costante che non cambia mai: solo il Mossad ha licenza di uccidere, gli altri sono definiti terroristi.


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