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Joe BIden e Nancy Pelosi

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Il caso Trump pone due dilemmi. Uno politico sulla sua destituzione, uno sulla libertà di espressione dopo il suo bando da Twitter.

Esistono due modi per affrontare la questione della destituzione (impeachment) di Donald Trump. Il primo è quello di Nancy Pelosi, la presidente della camera dei rappresentanti che rifiuta l’impunità per un presidente che, secondo le sue parole, ha “incitato all’insurrezione”. Il secondo è quello di Joe Biden, il presidente eletto, che privilegia la “riconciliazione” e teme che un processo per la destituzione di Trump possa accentuare le divisioni nel paese.

Questo dibattito dovrà essere risolto alla svelta perché Trump lascerà la Casa Bianca tra nove giorni. Ci sono poi le pressioni su Mike Pence perché attui il 25mo emendamento della costituzione per mandare a casa il presidente uscente: ma il vice di Trump non è mai stato un cuor di leone ed è difficile che imbocchi questa strada.

Il Washington Post ritiene che sarà difficile ottenere anche un impeachment per cui suggerisce una strada più simbolica ma forse anche più concretamente politica: che il Congresso voti una mozione di censura che obblighi i repubblicani a schierarsi contro Trump, senza doverlo far fuori, su una questione di principio, ovvero che non si mettono in discussione i risultati del voto una volta che sono stati convalidati.

Ne va della sopravvivenza della democrazia americana che in ogni caso ha bisogno di importanti e urgenti riforme a partire da un sistema elettorale che fa acqua da tutte le parti: per modificarlo, è bene ricordarlo, ci vogliono comunque i due terzi dei voti al Congresso, quindi servono un’unità di intenti e una convergenza che per il momento appaiono assai labili.

Perché i democratici vogliono l’impeachment e la condanna di Trump, anche con un procedimento che si concluderà dopo il 20 gennaio? L’obiettivo dei democratici è quello di scongiurare attraverso la procedura di impeachment – la seconda dopo quella andata già a vuoto per abuso di potere – il rischio che Trump si ricandidi nel 2024.

Dopo quanto accaduto il 6 gennaio questa prospettiva appare improbabile ma il presidente uscente conserva ancora l’appoggio di parte dei 74 milioni di elettori che l’hanno votato. La destituzione renderebbe un ritorno ancora più difficile.

Emerge la spaccatura del paese insieme all’impatto delle menzogne ripetute da Trump sui presunti brogli, I primi sondaggi sono inquietanti. Il 68 per cento dei repubblicani non ritiene l’assalto al Campidoglio una minaccia per la democrazia, il 22 per cento approva addirittura l’iniziativa e il 77 per cento rifiuta di accettare che Trump lasci la Casa Bianca.

L’effetto delle bugie ripetute da Trump a proposito dei presunti brogli è devastante sul panorama politico del Paese. La maggioranza degli elettori di Trump, tra l’altro, dichiara di essere fedele a lui, non al partito repubblicano. E questo la dice lunga sul punto in cui sono arrivati gli Stati Uniti e la paura di condannarlo da parte dei rappresentanti repubblicani che per quattro anni hanno avallato le sue menzogne e le sue fesserie, compresa la strategia anti-pandemia. Ecco perché tirare giù dal piedistallo Trump non è così semplice di fronte a un Paese spaccato.

Poi c’è la questione Twitter. Anche qui c’è una divisione tra chi ritiene legittimo quanto ha fatto Twitter, buttandolo fuori dalla piattaforma, e chi invece pensa che sia stata esercitata una forma di censura.

Chi appoggia la prima tesi sostiene che Twitter è una piattaforma privata e ha la facoltà di decidere _ anche su basi di sentenze della Corte suprema _ chi può farne parte e chi no. Le grandi aziende di social media, secondo questa posizione, hanno quindi il diritto di sospendere chiunque in quanto non sono canali di informazione.

Ma è davvero così? In realtà sappiamo benissimo che un grande parte della popolazione, non solo negli Stati uniti ovviamente, prende le sue informazioni proprio dai social media. C’è chi ritiene che la decisione di censurare Trump non spetti a Twitter ma a un’autorità politica costituita per legge, come quella sulla privacy, che decida in base alla costituzione chi debba essere censurato o espulso.

In poche parole si mette in dubbio che questi social media, pur essendo di proprietà privata, decidano o meno senza appello e senza possibilità di controllo.

Ovviamente nelle autocrazie e nelle dittature il problema non si pone: sono questi regimi che decidono che cosa fare e infatti oscurano Twitter o Facebook quando gli pare e tengono strettamente sotto il controllo della loro censura i social media.

Ma la questione c’è evidentemente, perché oggi la censura è stata applicata a Trump un giorno a chissà chi altro: la posizione che possono fare quel che vogliono perché si tratta di mezzi privati alla fine è debole. Intanto Twitter ieri ha perso in Borsa il 6,4 per cento e non è un caso: l’account di Trump era seguito da 88 milioni di persone.


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