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Giulio Regeni

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Alla fine l’Italia resterà aggrappata alla Merkel fin che si può (settembre). Sull’Egitto, Regeni e il resto, come si suole dire, un bel silenzio non fu mai scritto. E infatti è calato il silenzio. L’ufficio studi di Draghi funziona, adesso però bisognerà passare alla pratica. Vale ovviamente per la politica interna ma anche per quella estera. Anche se già si può dire che gli esteri come l’economia saranno diretti da palazzo Chigi più che dai ministeri. Ma per completare il quadro ci vorranno le nomine dei sottosegretari alla Farnesina dove non si esclude che Di Maio possa finire in coabitazione con qualche rivale politico.

GLI OBIETTIVI DELLA POLITICA ESTERA

Ma prima di arrivare alle conclusioni operative della politica estera del governo Draghi, che come tutti i governi italiani in questo campo è a sovranità limitata, esaminiamo i contenuti. Nel suo discorso al Senato il presidente del Consiglio Draghi ha esposto una convinta adesione all’Unione europea e all’Alleanza atlantica; la decisa condivisione del principio di irreversibilità della scelta dell’euro; l’impegno ad alimentare il dialogo con la Federazione Russa, pur citando la questione dei diritti umani, la fiducia in una rinnovata e intensa collaborazione con Biden, la necessità di rafforzare il rapporto strategico con Germania e Francia. E poi ancora, il negoziato sul nuovo patto per le migrazioni e l’asilo, e la presidenza italiana del G20 orientata alla “sostenibilità” e alla “transizione verde”.

Sono questi i principali obiettivi di politica estera. In alcuni passaggi mancava poco che Draghi si facesse paladino della pace nel mondo. «Questo governo – ha detto – sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite. Ancoraggi che abbiamo scelto fin dal dopoguerra, in un percorso che ha portato benessere, sicurezza e prestigio internazionale. Profonda è la nostra vocazione a favore di un multilateralismo efficace, fondato sul ruolo insostituibile delle Nazioni Unite. Resta forte la nostra attenzione e proiezione verso le aree di naturale interesse prioritario, come i Balcani, il Mediterraneo allargato, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo orientale, e all’Africa».

Draghi deve tenere in piedi l’oscillante baraccone italiano e anche questo governo dove la Lega fino all’altro giorno ha sempre preso l’Europa a sonori schiaffoni. Fosse stato per Salvini e la Meloni avremmo votato alla presidenza della Commissione contro la tedesca von der Leyen, mettendoci contro la Germania, e probabilmente avremmo visto la metà dei soldi stanziati per l’Italia nel Recovery Fund che, non dimentichiamolo, è stato portato a casa dal governo Conte entrando nella famosa maggioranza Ursula. Con strateghi di politica estera del calibro di Salvini le casse sarebbero mezze vuote e non si capisce tutto questo sbrodolare lodi sul leader leghista: ha dovuto cambiare idea per entrare nel governo dove si fanno le fette di torta e le nomine altrimenti su al Nord lo avrebbero sbeffeggiato i suoi stessi elettori.

L’ASSE FRANCO-TEDESCO

Ma siccome c’è poco da fidarsi di una maggioranza di governo così eterogena e antitetica nelle sue componenti, il premier ha dovuto ribadire ai recalcitranti leghisti non soltanto che l’euro è irreversibile ma che entrando nel nuovo governo si sono sottomessi alle regole europee e a un ben preciso indirizzo politico di cui è portatore l’asse franco-tedesco che per altro è sempre meno brillante e da settembre rinuncerà alla sua colonna portante: la cancelliera Angela Merkel che non si ripresenterà alle elezioni aprendo una nuova fase di interrogativi.

L’uscita di scena della Merkel è per tutti la vera incognita della costruzione europea e dell’asse in cui Draghi intende inserire l’Italia, per ragione e per forza perché non esistono alternative. Lo sa bene lui che ha salvato l’euro, e noi, negoziando con la Bce a Francoforte e con la leadership di Berlino. E lo ha espresso con grande chiarezza: «Proprio la pandemia – ha detto il premier – ha rivelato la necessità di perseguire uno scambio più intenso con i partner con i quali la nostra economia è più integrata. Per l’Italia ciò comporterà la necessità di meglio strutturare e rafforzare il rapporto strategico e imprescindibile con Francia e Germania».

Sul resto Draghi non ha ritenuto di dilungarsi troppo affermando che «occorrerà anche consolidare la collaborazione con stati con i quali siamo accomunati da una specifica sensibilità mediterranea e dalla condivisione di problematiche come quella ambientale e migratoria: la Spagna, Grecia, Malta e Cipro. Continueremo anche a operare perché si avvii un dialogo più virtuoso tra l’Unione europea e la Turchia».

Insomma per Draghi la nostra politica estera, fuori dell’europeismo e dall’atlantismo, si liquida con otto righe. Mica tanto in un discorso durato un’ora. È vero che non si può entrare troppo nello specifico ma visto che si è dilungato a parlare persino degli istituti tecnici non si vede perché si debba ignorare il caso dell’Egitto, di Regeni e di Zaki.

IL SILENZIO SUL CASO EGITTO

Il caso Regeni, con la Libia, costituisce il problema irrisolto di tutti i governi negli ultimi cinque anni. Non solo: la procura di Roma ha accertato la responsabilità in giudizio della polizia e dei servizi egiziani che hanno torturato e ucciso un cittadino italiano mentre il Cairo ci sta umiliando da negando la sua collaborazione e prendendo in giro sia l’Italia che il suo sistema giudiziario. Questo silenzio di Draghi è tanto più rilevante in quanto lo stesso premier ha menzionato le violazioni della Russia sui diritti umani.

Come diceva Andreotti, citando un Papa e un cardinale, a pensare male si fa peccato ma spesso ci si indovina. Forse Draghi vuole scaricare la patate bollente del caso Regeni e di Zaki, lo studente egiziano di Bologna detenuto ingiustamente, al ministro degli Esteri Di Maio, che non potendo toccare palla in Europa e probabilmente fortemente limitato dal nuovo consigliere diplomatico di Draghi, l’ottimo ed esperto ambasciatore Mattiolo, verrà mandato in giro per il Mediterraneo e i Balcani.

Certo che questo silenzio su un caso che ha scosso e continua a scuotere l’opinione pubblica italiana qualche pensiero malevolo lo solleva. Forse – ma è solo un’ipotesi – Draghi non vuole mettere in pericolo le nostri forniture di armi (10 miliardi di euro di contratti) con il generale e dittatore Al Sisi. Noi siamo molto più che atlantisti, siamo schierati con gli Usa e con il Patto di Abramo tra Israele e gli arabi del Golfo che finanziano l’Egitto. Il silenzio, a volte, è fragoroso.


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