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Jair Bolsonaro

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La faccia triste del Sudamerica non la vuole vedere nessuno. Se non fosse stato per la notizia dello spostamento della Coppa America di calcio dall’Argentina al Brasile, un intero continente sarebbe scomparso dal radar dei media.

Eppure in Brasile, Colombia, Argentina, si continua a morire di Covid, aumentano le proteste di piazza con milioni di persone e si intensificano persino le voci di golpe a Bogotà.

A migliaia manifestano ogni giorno in tutto il Brasile chiedendo che il presidente Bolsonaro (che da tempo si oppone a lockdown, mascherine e vaccinazioni) venga messo in stato di accusa.

Il Congresso brasiliano ha avviato un’indagine sulla gestione della pandemia che potrebbe portare proprio all’impeachment di Bolsonaro. Se succedesse sarebbe il terzo presidente a fare questa fine, dopo Fernando Collor nel 1992 e Dilma Rousseff nel 2016.

Ma anche senza impeachment, le fortune elettorali del presidente sembrano ormai un ricordo.

LA PANDEMIA NEGATA

La pandemia in Brasile e Argentina è fuori controllo. In Brasile sono almeno 270mila i decessi ufficiali causati dal coronavirus da inizio anno, quasi duemila al giorno, che salgono quasi a mezzo milione da inizio pandemia.

Una strage di cui Bolsonaro è responsabile ma il presidente sbandiera l’organizzazione della “Copa America” come una grande vittoria per recuperare nei sondaggi: lui pensa a dare ai brasiliani “panem et circenses” e a trattarli come se fossero sudditi.

In realtà Bolsonaro avrebbe ostacolato l’avvio della campagna vaccinale brasiliana, stando ad alcuni dirigenti farmaceutici che hanno testimoniato contro di lui.

A oggi il 22% dei brasiliani ha ricevuto almeno una dose di vaccino: una quota simile a quella degli argentini che, come il Brasile, sono alle prese con la peggiore ondata da inizio pandemia.

Un numero di morti ancora così alto, in Brasile e in Argentina, è la spia di quanto diffusa sia l’infezione: lì neppure il vaccino, al momento, riesce a scalfire l’andamento di contagi e decessi.

Soprattutto tra gli strati meno abbienti della popolazione, più esposti al rischio di contagio e con minore accesso ai vaccini.

LULA AL TOP NEI SONDAGGI

Con l’elezione di Biden e la “conversione” di Boris Johnson, Bolsonaro è ormai rimasto tra i pochissimi leader in carica a negare – ancora oggi – la gravità della pandemia.

Sarà forse anche per questo che ora il 45% dei brasiliani giudica la sua azione “negativa” o “terribile”.

E da quando lo scorso marzo la Corte suprema ha riabilitato Lula, l’ex presidente guida nettamente nei sondaggi per le elezioni dell’anno prossimo: il 40% dei brasiliani dichiara che voterebbe per lui, contro solo il 27% che si schiera a favore di Bolsonaro.

POLVERIERA COLOMBIA

Se il Brasile ribolle di rabbia contro Bolsonaro, la Colombia è sull’orlo dell’esplosione. È a un passo dalla rottura il dialogo tra il governo e il Comité del paro.

L’intervento dell’ex presidente Álvaro Uribe, con le sue esplicite critiche alla gestione delle manifestazioni da parte di Iván Duque, ha fatto saltare la firma dell’accordo preliminare sulle garanzie per l’esercizio della protesta, che era stato raggiunto dopo faticose trattative.

Alla tirata di orecchie da parte di Uribe, il “subpresidente”, come il popolo colombiano ha ribattezzato Duque, proprio per la sua dipendenza dal leader della destra più estrema, ha sfoderato di nuovo il pugno di ferro.

Da una parte ha ordinato la militarizzazione di 21 aree di otto dipartimenti del Paese, triplicando la presenza delle forze armate a Cali e nel dipartimento del Valle del Cauca, e dall’altro ha inserito come condizione per portare avanti il negoziato la rimozione di tutti i blocchi stradali: richiesta che il governo aveva già espresso con chiarezza, ma che figurava tra i punti da trattare nel successivo negoziato.

Aumenta intanto la pressione internazionale per un’inchiesta indipendente sui fatti di Calì dove il governo di Bogotà aveva schierato 7mila militari e, nel corso delle proteste contro il presidente Ivan Duque, si erano registrati 13 morti.

FARI ONU SUI MORTI DI CALÌ

Per l’Alta commissaria Onu per i diritti umani Michelle Bachelet «è essenziale che coloro che si presume siano coinvolti in queste morti o nei ferimenti, inclusi funzionari governativi, siano soggetti a un’inchiesta rapida, efficace, indipendente, imparziale e trasparente».

Stime attendibili parlano di un bilancio complessivo di almeno 60 morti e oltre duemila feriti.

E alla riforma tributaria, che aveva innescato le proteste, si sono aggiunti numerosi altri temi: i manifestanti oggi dicono basta alla corruzione governativa e chiedono il rispetto dei diritti umani e una riforma del sistema di polizia, accusato di violenze sistematiche ai danni della popolazione.

In realtà la protesta viene da lontano. Nei lunghi anni in cui è stata ostaggio del conflitto armato, la Colombia non è intervenuta sulle profonde disuguaglianze che – come in molti Paesi dell’America Latina – ne hanno caratterizzato la crescita. In Colombia circa l’1% della popolazione detiene il 40% della ricchezza, mentre il coefficiente di Gini – che misura la disuguaglianza sui redditi – segna lo 0,55. Tra i più alti del mondo.

E non è tutto: quando la misurazione avviene dopo aver pagato le tasse, l’indice schizza a 0,6 e oltre. Il che significa che il sistema impositivo aumenta le disuguaglianze invece di ridurle.

Povertà estrema, ricchezze estreme: è la faccia triste del Sudamerica, ma qui pare non interessare quasi nessuno e si preferisce parlare di calcio.


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