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Saif Islam Gheddafi

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Alla Casa del cinema di Roma l’altro ieri proiettavano un ottimo documentario della Rai sulla Libia dal titolo “C’era una volta Gheddafi”. In realtà un Gheddafi c’è ancora: il figlio Saif Islam, che si è appena candidato alle presidenziali del 24 dicembre (sempre che si tengano).

Gheddafi ha presentato la sua candidatura a Sebha, nella regione del Fezzan dove si concentrano i suoi sostenitori. Ma è ancora sotto inchiesta della Corte penale internazionale dell’Aja, ed è possibile, se non probabile, che la Commissione elettorale rifiuti la sua candidatura. Ma al di là delle ipoteche e della burocrazia, la sua candidatura, a dieci anni dalla rivoluzione e dai raid occidentali che abbatterono Muhammar Gheddafi, rappresenta comunque un momento significativo della confusione che regna in un Paese travolto da 10 anni di guerra civile e dove le sue regioni principali, Tripolitania e Cirenaica, restano ancora due entità separate e contrapposte.

La clamorosa candidatura dei Saif Islam (per altro annunciata nell’estate scorsa) deve far riflettere assai l’Occidente che con le sue “guerre umanitarie” ha creato dei disastri cui non si riesce ancora a porre rimedio.

Alla Conferenza di Parigi sulla Libia di venerdì scorso ne abbiamo avuta l’ennesima prova. Con dichiarazioni di apparente buon senso, a Parigi Macron e Draghi hanno invitato i libici ad andare a elezioni il 24 dicembre. Hanno minacciato pure sanzioni a chi si oppone. Ma dove erano Italia e Francia quando nel novembre 2019 il generale Khalifa Haftar stava per conquistare Tripoli e venne poi fermato dall’intervento della Turchia su richiesta di Sarraj? Haftar stava prendendosi la Libia con la forza e il sangue e noi non muovevamo un dito, altro che elezioni. 

L’Italia si rifiutò, con Usa e Gran Bretagna, di aiutare Sarraj, ovvero il governo riconosciuto dall’Onu, mentre la Francia, con Russia, Emirati ed Egitto, sosteneva Haftar. Cosa che Parigi, in maniera più o meno sotterranea, fa ancora oggi mostrando in pubblico una facciata di finta neutralità che non inganna nessuno, tanto meno i libici.

È tutto da dimostrare, poi, che la Turchia in Tripolitania e la Russia in Cirenaica siano disposte ad accettare l’esito di elezioni che li costringerebbe a lasciare la Libia: oltre tutto quando in corsa per le presidenziali c’è un personaggio controverso e inaffidabile come Khalifa Haftar. Elezioni affrettate e poco trasparenti rischiano di dividere ancora di più il Paese.

Nella conferenza stampa di Parigi le contraddizioni occidentali hanno raggiunto l’apice. “I libici_ ha dichiarato Draghi con il consenso di Macron _ devono fare subito una legge elettorale, nel giro di pochi giorni, non di settimane”. Ma dopo anni neppure l’Italia ha ancora una legge elettorale e ora la pretendiamo subito dai libici. Ameno che non sia già stata preparata da noi e questa sia stata tutta una sceneggiata.

Cosa può accadere dalle parti della Libia lo abbiamo visto con Conte e Di Maio che nel dicembre 2020 sono andati a Bengasi per portarsi a casa i pescatori di Mazara del Vallo. Ai nostri governanti piace prendere delle veloci abbronzature libiche, per tornare a casa così soddisfatti che pensano di avere compreso ogni cosa della nostra ex colonia. Ma i libici sanno benissimo che qui non ci sono più i Moro, gli Andreotti e i Craxi che salvavano la pelle a Gheddafi dai complotti britannici e dai bombardamenti americani. Ce lo ricorda proprio questo documentario Rai dove il generale dei servizi Iucci queste cose le ha fatte e le racconta per filo e per segno.

I libici guardano i governi italiani di questo nuovo millennio come i vassalli della Nato e dell’Unione europea, da corteggiare soltanto per controbilanciare la presenza dei turchi in Tripolitania, dei russi in Cirenaica e ammansire le pretese della Francia. Solo l’Eni ha una sua autonoma credibilità ed efficacia. E’ doveroso ricordare che in Libia l’Italia ha subito la peggiore sconfitta dalla seconda guerra mondiale, dopo che il 30 agosto 2010 avevamo ricevuto Gheddafi a Roma in pompa magna. Con i raid francesi, inglesi e americani del 2011, diventati poi Nato, l’Italia perse allora 55 miliardi di euro di commesse e giro d’affari con Tripoli. Tanto per avere un’idea l’ultima finanziaria di Draghi è di soli 23 miliardi, molto meno della metà di quella cifra.

Ma peggio ancora fu quando il nostro Paese, spinto dal presidente Napolitano e nel vuoto pneumatico di iniziativa del governo Berlusconi, si adeguò ai ricatti dei nostri alleati per aderire ai bombardamenti sulla Libia sotto l’egida dell’Alleanza Atlantica.

Ci sono domande che in questo Paese dei balocchi nessuno si fa mai, neppure guardando al recente passato quando colpendo Gheddafi, il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo, l’Italia perse il suo ruolo tradizionale sulla Sponda Sud. Fortunatamente il democristiano Mattarella è appena andato in visita di stato in Algeria, rimasto l’unico nostro Paese amico nel Nordafrica, per tentare di restituire un po’ di smalto a una politica estera assai opaca e priva di qualunque seria autonomia rispetto all’atlantismo e al manuale di Bruxelles.

Ecco che ora il ritorno di un Gheddafi sulla scena libica scompagina di nuovo le carte. Il figlio del colonnello era stato bloccato dai miliziani di Zintan nel sud del Paese mentre era in fuga verso il Ciad, nel 2011. Da allora è rimasto agli arresti a Zintan, una cittadina sulle montagne alle spalle di Tripoli, verso il confine tunisino. Nel 2017 Saif venne liberato ma continuò a vivere a lì, sotto protezione della milizia locale che da allora ha stretto un patto con l’erede di Gheddafi. Quale patto non lo sappiamo ma possiamo immaginarlo: Gheddafi padre ha lasciato un’enorme eredità in parte congelata all’estero ma in parte no: tra cui 15 miliardi di dollari in contanti che presero il volo in Sudafrica nel 2011 durante la rivolta. Giova ricordare che Gheddafi ha sempre finanziato l’Anc di Mandela e poi quella dell’ex presidente Zuma.

Ci saranno proteste contro la candidatura di Saif Islam, ma sicuramente pezzi del vecchio regime, delle tribù e dell’opinione pubblica vicini ai gheddafiani accoglieranno questa candidatura come uno sviluppo positivo. In realtà nessuna delle candidature in campo _ da quella del primo ministro Abdulhamid Dbeibah, dell’ex vicepresidente Ahmed Maitig, un uomo d’affari di Misurata, a quella l’ex ministro dell’Interno Fathi Bishaga, anche lui di Misurata _ sembrano in grado di raccogliere vasti consensi. Per non parlate del generale Haftar che in Tripolitania viene considerato un “”macellaio”. La verità è che il processo politico libico è assai debole e elezioni, se si terranno, non risolveranno la questione libica: qui speriamo che la narcotizzino ma è più probabile che vedremo nuove spaccature.


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