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Il monumento a Ladislao di Durazzo

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Ladislao di Durazzo, il Magnanimo re guerriero della dinastia angioina ha occupato il trono di Napoli nel primo quindicennio del Quattrocento ed è sepolto a San Giovanni a Carbonara, in un mausoleo che tutti citano, ma in pochi vanno ad ammirare. Ladislao è stato un sovrano straordinario per i suoi tempi, ma è pressoché ignorato dalle storie ufficiali e dai manuali in uso nelle scuole.

Contro un re che stava conquistando e unificando l’Italia partendo dal Sud, da Napoli, quattro secoli e mezzo prima dei nordici Savoia, è stata messa in campo una sorta di damnatio memoriae. Ladislao meriterebbe, invece, un’analisi complessa da parte di storici titolati che ne riconoscessero i meriti e le debolezze, poiché la grande impresa fallì in un modo che più melodrammatico e pruriginoso non sarebbe stato possibile.

In quell’epoca, in quel tramonto del Medioevo, dell’Italia non esisteva che un’idea molto vaga e blanda. Quando Ladislao, scalata la penisola, saccheggiando per ben due volte Roma, sottomettendo papi e antipapi, attestandosi a Perugia (sua fedelissima vassalla), messo a punto un sofisticato piano di alleanze con i piccoli ducati, marchesati e robetta del Nord, stava per dare il colpo definitivo alla repubblica fiorentina (non ancora medicea), quando era all’apice del suo potere, fu improvvisamente avvelenato.

In passato c’erano stati numerosi altri tentativi, ai quali era fortunosamente scampato. Allora si portava, era una sorta di elezioni anticipate. Le cronache raccontano che si sentì male mentre giaceva con una giovane donna perugina.

L’impetuoso re di Napoli era un amante insaziabile, come molti altri sovrani dell’epoca. Fatte le debite proporzioni, al confronto certi bunga bunga di recente memoria appaiono davvero come cene eleganti. Fu contagiato, riportano i pettegoli cronisti quattrocenteschi, da una femmina prezzolata, escort e sicaria, figlia di un farmacista, che si cosparse le parti intime con un potente veleno. Ladislao fu trasportato a Napoli, ancora vivo e in preda ad atroci dolori. Morì nella sua città, accudito dalla sorella Giovanna che gli successe e che lo fece seppellire di notte, alla luce di poche fiaccole, nella chiesa durazzesca che allora era fuori le mura cittadine. Sic transit gloria mundi, direbbe un emulo contemporaneo.

La vita e la morte di Ladislao farebbero la gioia e il successo di abili sceneggiatori di fiction di cappa, spada e sesso. Ma non viene narrata neanche dagli storici. E un motivo c’è. Gli Angioini, già ai tempi di Dante, godevano di cattiva stampa, anche se Boccaccio e Petrarca li ritenevano grandi sovrani e ai loro piedi si andavano a genuflettere, forse ipocritamente, per avere allori e prebende. Dopo la caduta della dinastia e a causa del libertinaggio delle due regine Giovanna (soprattutto la seconda) il giudizio fu spietato. La Napoli angioina era giudicata alla stregua di una sentina di vizi e sacrilegi, di ricchezza e crudeltà. Eppure quello di Napoli era l’unico vero regno d’Italia e uno tra i pochi d’Europa. Era arbitro dei destini di mezzo continente, dalla Provenza all’Ungheria. 

Ovviamente, Ladislao non perseguiva un ideale unitario come lo intendiamo oggi. Le sue non erano guerre di popolo, come (formalmente) erano quelle ottocentesche, ma solo imprese di conquista dinastica. Nel tardo Medioevo contavano le dinastie e non i popoli. Ma sono state proprio le dinastie (e le loro motivazioni dinastiche) a unire, quattro secoli prima dell’Italia, la Spagna, la Francia e l’Inghilterra. La Storia non si fa con i se, però va detto che quasi tutta l’interpretazione, la narrazione e la retorica di secoli centrali per la vita di questo Paese, sono state toscano-centriche. I fiorentini erano mercanti e banchieri, gente dalla mente sottile e dal calcolo rapido. Con Ladislao fecero il peggiore dei doppi giochi. Lo aiutarono finché era debole, finsero di sostenerlo quando sembrava il vincitore unico, lo avvelenarono quando si sentirono minacciati. E Ladislao perse tutto per la sua insaziabile sessualità. Era il suo tallone d’Achille.

Ma gli storici dell’epoca, e per imitazione quelli a seguire, non si limitarono a farlo uscire clamorosamente di scena. Ladislao doveva scomparire dalla memoria. Era solo un re puttaniere, un giovane avventuriero e tutto il resto. Eppure era stato un raffinato diplomatico (ben consigliato): sconfitto il rivale dell’altro ramo d’Angiò, era riuscito a eliminare lo strapotere dei nobili che avevano creato domini privati all’interno del Regno. Chi non era stato battuto sul campo era stato comprato con titoli e ricchezze.

La sua più tenace avversaria, la valorosa Maria d’Enghien, signora di Taranto e del Salento, fu presa in moglie per essere rinchiusa nella dorata prigione di Castel Nuovo, regina e detenuta. Che cosa sarebbe stata l’Italia unificata dal Mezzogiorno, quattro secoli e mezzo prima dell’impresa garibaldina? Forse l’unità non sarebbe durata, forse sì, e con ruoli ribaltati, la parte più ricca e potente (allora) della penisola avrebbe trascinato con sé il frammentato nord padano. Fantasie, certo. Che però smentiscono, in questo caso, l’idea di un Meridione sempre sottomesso allo straniero, capace solo di sterili rivolte masaniellesche.

La Storia la scrivono i vincitori e se tra i discendenti dei vincitori ci sono geni del calibro di Machiavelli e Guicciardini non c’è partita neanche con la penna. Così di tutto questo nei libri di storia persistono solo tracce. Una frase o un rigo appena. Nomina nuda tenemus. Mentre conosciamo i minuziosi dettagli di guerre e guerricciole tra le repubbliche, principati e ducati dell’Italia centro-settentrionale. Questo grazie alla prevalenza del toscano, ma anche per l’accodamento della cultura successiva, soprattutto di quella idealista che ha avuto in due meridionali come Francesco De Sanctis e Benedetto Croce i maggiori e più autorevoli codificatori. Ciò che usciva dal seminato, dal tracciato di un’Unità nata secondo la visione ottocentesca, tutto quanto deviava, smentiva o anticipava andava ridimensionato, espunto o ignorato. E così pure Ladislao ci andò per sotto.


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