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Monsignor Giovanni D'Ercole

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Era il 27 aprile scorso. Per avviare la tanto agognata fase 2, il governo aveva appena allentato con molta cautela le restrizioni in vigore durante il lockdown. Tra le attività cui veniva dato il via libera, mancavano le celebrazioni religiose. Ne seguì una reazione dura di mons. Giovanni D’Ercole, abruzzese, vescovo di Ascoli Piceno, che in un video reclamava il diritto di tornare al culto.

«Ce lo chiede la gente. Ci sono turbe psicologiche e noi dobbiamo aiutare i fedeli». Pochi giorni e il governo accolse le richieste dei vescovi. Ma tre mesi dopo il ritorno delle Messe con i fedeli, si denota una scarsa partecipazione.

Eccellenza, come lo spiega?
È normale. Dopo che per quasi tre mesi le chiese sono rimaste chiuse e dopo che è stata instillata la paura del contatto sociale, la gente si sente scoraggiata a tornare a Messa, almeno che non abbia una fede molto stabile.

Come si attirano le persone alla Messa?
Non si tratta di doverle attirare, la Chiesa non è un negozio. È un processo lento, bisogna far riscoprire nei cristiani la necessità di sentirsi comunità. Perché nel momento in cui ci si sente comunità, si avverte anche il bisogno di partecipare alla celebrazione fondante la comunità, che è l’Eucarestia. Durante il lockdown hanno fatto passare il messaggio che si potesse pregare dappertutto – anche nel bagno, è stato detto -. In effetti dovunque si può pregare, ma la celebrazione dell’Eucarestia non è come dire una preghiera, è qualcosa di essenziale. Senza Messa è come voler vivere senza nutrirsi. E forse questa verità si è un po’ smarrita e va fatta riscoprire.

Si è un po’ smarrita anche per la tendenza, durante il lockdown, a sopperire con le Messe in tv o in streaming?
La questione è duplice: ha un valore e un limite. Il valore è che gli anziani impossibilitati a recarsi in chiesa e gli ammalati negli ospedali possono avere nella tv o nello streaming un importante supporto. Ricordo, a tal proposito, che andiamo sempre più verso l’invecchiamento della popolazione e la solitudine delle persone. Il limite è credere che assistere da uno schermo sia come partecipare fisicamente, ma se si ha una formazione cristiana seria non si hanno difficoltà a comprendere la differenza.

L’obbligo di mascherina, il contingentamento numerico, la sostituzione dell’acqua santa con il gel disinfettante agli ingressi delle chiese: questi aspetti potrebbero aver fatto smarrire il senso del sacro nei fedeli?
Certo. Il problema è che è stata posta grande attenzione nei confronti delle chiese, tanto da aver inculcato nei fedeli una paura particolare: se si vede qualcuno senza mascherina, i fedeli sono i primi a gridare allo scandalo. Da un lato è positivo, perché si è creata responsabilizzazione. Però quando la paura domina, non si riesce ad essere equilibrati.

Il numero dei contagi continua a salire, la paura è forse giustificata?
Non parliamo di cifre astronomiche e gli ospedali sono vuoti. Va detto, inoltre, che i positivi asintomatici non sono malati. Bisogna dunque ragionare e ponderare le preoccupazioni. L’ipotesi di un lockdown è assurda, chiudere di nuovo l’Italia sarebbe devastante.

Cosa fare allora?
Nella fase 1 la parola d’ordine era “distanziamento”, oggi deve essere “convivere”. È fondamentale imparare a convivere con il virus, rispettando le norme ma riprendendo la vita sociale.

E in chiesa? Lei allenterebbe alcune restrizioni?
Inizierei con il togliere il limite massimo di partecipanti alle celebrazioni. Mi auguro che si usi il buonsenso per un graduale ritorno alla normalità.


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