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Se c’è un antidoto all’intolleranza, è l’incontro e il confronto pacifico con altre persone. Ne deriva dunque che starsene chiusi in casa, con le relazioni sociali ridotte all’osso, potrebbe incoraggiare sentimenti negativi verso il prossimo. È questa la conclusione cui è giunto uno studio condotto dalla società di sondaggi Survation per conto del Woolf Institute di Cambridge e basato su 11.701 interviste effettuate in Inghilterra e Galles.

Ed Kessler, fondatore del Woolf Institute, ha affermato che le persone lavorando da casa rischiano di «chiudersi in silos isolati». Ha dunque invitato le istituzioni politiche a considerare uffici e luoghi di lavoro vari come aree «vitali» per migliorare le relazioni di comunità. Lo studio ha dimostrato che tre quarti delle persone che lavorano in uffici condivisi (76%) si trovava insieme a colleghi di etnia diversa dalla propria. Inoltre, lo studio suggerisce che i disoccupati hanno il 37% in più di possibilità di stringere legami sociali soltanto con persone a loro affini, anche etnicamente.

Il fenomeno dello smart working ha conosciuto un impressionante incremento a livello mondiale a causa della pandemia. Nel periodo di lockdown, secondo l’Osservatorio smart working del Politecnico di Milano, hanno lavorato da casa 6,5 milioni di persone, delle quali 1,5milioni sono rientrate in ufficio a settembre. Il lavoro agile sembra comunque trovare larghi consensi. Secondo quanto emerso da una nuova ricerca globale di Kaspersky, leader mondiale nella cybersecurity, che ha coinvolto 8mila lavoratori delle PMI di diversi settori, quasi tre quarti degli italiani (70%) non vorrebbe tornare alle modalità di lavoro pre-Covid.

Il lavoro da casa, sempre secondo lo stesso sondaggio, sarebbe preferibile per varie ragioni, come passare più tempo con i propri cari (47%), risparmiare denaro (46%). Non solo, nel prossimo futuro quasi un terzo dei dipendenti (31%), vorrebbe abbandonare la tradizionale fascia oraria 9-18. Dato che aumenta laddove gli intervistati abbiano tra i 18 e 25 anni, tra i quali il 44% è pronto a rivedere orari di lavoro rigidi.

Lo studio rivela inoltre che circa un quarto (26%) vorrebbe abolire la settimana lavorativa di cinque giorni. Ed è sempre il 31% che ritiene lo smart working uno dei maggiori benefici emersi durante la pandemia di Covid. Alexander Moiseev, Chief Business Officer di Kaspersky, ha dichiarato: «Ci troviamo di fronte a un momento cruciale.

La pandemia ha senza dubbio accelerato la trasformazione digitale, portando la nostra vita professionale e la sfera privata a sovrapporsi. Abbiamo notato che i dipendenti stanno utilizzando la tecnologia per decidere del proprio futuro e stanno intraprendendo un percorso di cambiamento alla ricerca di una maggiore libertà e flessibilità. Le aziende hanno ora il compito di adattare e rimodellare l’ambiente di lavoro moderno in una struttura più produttiva, sostenibile e flessibile». Chissà cosa ne pensa il Woolf Institute.


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