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Gran brutta storia questa della posizione dell’Italia sul MES. La demagogia ha inquinato tutto impedendo qualsiasi analisi ragionata e ragionevole di quel che è sul tappeto. Perché la normativa sul Meccanismo Europeo di Stabilità non è né una bagatella che lascia tutto com’è, né un mostruoso attentato alla sovranità italiana. È semplicemente uno strumento con cui si cerca di evitare un altro pasticcio come quello della Grecia, ma nella cui costruzione si insinuano interessi e tecnicismi.

È anche un pezzo di un più complessivo disegno in cui gli si affiancano altri interventi come quelli sul sistema bancario. Chi lo ha progettato e chi lo ha negoziato si è ovviamente misurato con queste asperità.

In Italia ci siamo distratti in quella fase, perché da noi la politica è raramente visione e normalmente è solo lotta di propaganda.

Improvvisamente ci si è accorti che la faccenda è più complicata del previsto, che qualcuno ha lavorato con maggiore astuzia ad una possibile tutela delle sue debolezze e che l’Italia deve pagare un contributo piuttosto pesante. Ecco costruita la trappola: noi paghiamo, ma siccome il governo stesso sostiene che non avremo bisogno di ricorrere a quello strumento, paghiamo per salvare altri.

Se poi, per caso, lo dovessimo usare noi, il conto sarebbe salato, perché saremmo costretti a fare i conti con le nostre leggerezze nella finanza pubblica.

Ecco servita la ricetta perfetta per una campagna demagogica: in un paese in cui si è consapevoli di stare ballando sulla tolda del Titanic, la paura di essere costretti a fare i conti con le nostre falle fa davvero Novanta. E siccome tutti sanno che soldi da spendere non ne abbiamo, l’idea che dobbiamo tirarli fuori per salvare altri che fra il resto possono essere quelli che ci hanno fatto la morale (leggi Germania con le sue crisi del sistema bancario) fa venire la mosca al naso.

Le cose non sono così semplici, i tecnici lo sanno bene, ma fra loro non mancano quelli più spregiudicati che giudicano possibile sfruttare le nevrosi della nostra politica attuale per vedere cosa si può fare per riparare un poco alle distrazioni passate.

È qui però che sorgono i problemi, che, come sempre quando si parla di economia, dipendono da una realistica valutazione del rapporto costi-benefici. Bisogna partire da una considerazione banale: abbiamo o meno possibilità di trovare alleati in Europa nella nostra eventuale battaglia per riequilibrare qualche aspetto del MES ed annessi che non ci pare accettabile? A stare a quel che si vede oggi le possibilità sono poche, e soprattutto andrebbero costruite. Il che significa avere costruttori credibili, una politica che mette sul piatto competenza e ragionevolezza, capacità di inserire le nostre osservazioni in una visione generale.

Proprio quello di cui siamo carenti. Arriviamo ai due appuntamenti UE in cui si discuterà il varo del MES con uno scenario che vede una destra demagogica scatenata contro, una componente populista del governo (M5S) che cerca di non perdere l’occasione di cavalcare gli animal spirits evocati dalla destra a proprio vantaggio, un partito europeista per dovere (il PD che esprime sia Gualtieri che Gentiloni) il quale non può farsi mettere i piedi in testa dai grillini, ma non sa bene quali argomenti forti mettere in campo. Per sovraprezzo c’è un premier nella più kafkiana delle posizioni possibili: è stato quello che ha partecipato a capo di un governo di colore diverso all’impianto del MES; quello che continua a volersi presentare in Europa come l’Italia ragionevole con cui si può trattare; quello che però non può rompere coi Cinque Stelle perché la sua storia politica è sostanzialmente legata a loro e nel PD non vede abbastanza forza per gestire una crisi di governo.

Il tutto avviene in un contesto che definire confuso sta diventando riduttivo (e ricordiamoci che i nostri giornali sono analizzati anche all’estero). Nella maggioranza ci si contrappone su tutto, come dimostra la tela di Penelope della legge di stabilità, con un ritardo nell’avvio dell’iter parlamentare che certo non sarà visto come una prova di affidabilità politica. Il clima di scontro generale pervade ogni evento di cronaca: basti vedere quel che sta succedendo con la vicenda delle inchieste su Renzi, dove si è scatenata una potenza di fuoco spropositata, manco si trattasse di uno che potrebbe sconvolgere gli equilibri italiani. I sondaggi stimano la sua forza elettorale intorno al 5%. Monti con un’operazione centrista più o meno dello stesso orientamento (lasciamo perdere i paragoni fra le due personalità) raccolse in voti veri (i sondaggi lo stimavano più in alto) l’8,3 alla Camera e il 9,1% al Senato: sappiamo come è finita.

Salvini si è stabilizzato nei sondaggi, punta a rovesciare il governo attuale, ma non compie l’operazione classica che si fa in questi casi: moderare verso il centro la sua proposta per acquisire i consensi in più necessari a tenere con forza la leva del comando. Continua invece a tenere inchiodato il suo partito in una prospettiva di destra-destra che favorisce solo la crescita del suo competitore interno alla coalizione, Giorgia Meloni. È un indice di mancanza di fiducia nella possibilità di vincere abbandonando l’armamentario della demagogia.

Quel che colpisce tutti gli osservatori attenti è il clima di generale incertezza in cui ci si continua a muovere, e che spinge sempre più tutti i gruppi più agguerriti delle classi dirigenti a scendere in campo direttamente o per interposta persona. I movimenti che si vedono nel campo dell’editoria giornalistica e dei media qualche riflessione dovrebbero suggerirla.
Non proprio il contesto migliore per esercitare un ruolo di peso in Europa. Possiamo anche provare a fare i capricci sfruttando le possibilità di veto, ma sapendo che con una situazione debole come la nostra i partner hanno molte possibilità di farcela pagare, a cominciare dall’andamento dello spread. Il calcolo costi-benefici non è una banalità come pensava Toninelli al tempo della querelle sulla Torino-Lione.


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