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Il presidente del Consiglio Mario Draghi

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A furia d’esser tirata ora da un lato ora dall’altro, c’è il fondato rischio di veder presto la giacchetta di Mario Draghi ridotta in mille lembi inservibili. E forse non sarebbe neppure questo, il problema maggiore attraversato nel pollaio-Italia, quanto piuttosto l’incedere di una malattia incurabile: il conformismo opportunista.

La confusione che regna sovrana induce i partiti a intestarsi, ognuno a modo proprio, il “draghismo” riducendolo a un “brand” per poveri gonzi (gli elettori). Con il risultato che la “ricetta-Draghi” finirebbe banalizzata dall’utilizzo spurio, il suo “pragmatismo” annacquato nel luogo comune. È anche per questo che andrebbe organizzata al più presto un’area draghista “senza se e senza ma” prima che i sommovimenti in atto – ancor più ce ne saranno dalla prossima settimana, dopo il risultato delle Comunali – trovino nel “Patto per l’Italia” proposto dal premier in Confindustria la coperta rassicurante alle loro difficoltà.

A sinistra, proprio mentre pare consolidarsi un asse Letta-Conte, con il supporto di Landini a proposito della battaglia del “salario minimo”, il segretario del Pd arrivava addirittura a definire il “patto per la ripresa una vittoria del Pd”: con ciò già mutandone nome e infilandoci altre cinque proposte care al Nazareno in un’operazione di lampante taglio propagandistico.

Anche perché, nel frattempo, nessuno sta con le mani in mano e persino l’arcinemico di Conte, al secolo Luigi Di Maio, starebbe immaginando di unire, nel nome del draghismo, la parte del Movimento che gli resta fedele con quella che sarà la “nuova” Lega di Giorgetti. Questa formazione, ovviamente materializzatasi soltanto sui quotidiani, trovava ieri il netto ripudio del (presunto) fondatore: “Non esiste la Lega di Giorgetti, chi arriva sappia che non è un partito come altri”, spiegava il ministro dello Sviluppo a margine degli Stati Generali dei sindaci della lega in Lombardia che si sono tenuti a Varese.

L’avvertimento, con forte accento al radicamento nella “propria terra”, era diretto ai recentissimi acquisti di Salvini (forzisti lombardi e qualche renziano al Sud) ma tendeva a rimarcare un orgoglio e una concretezza della Lega che fu “lombard” e che molti commentatori sottovalutano, tutti presi da quella “vis social” di Salvini che da qualche giorno è entrata formalmente in crisi con l’uscita di Luca Morisi e i dati impietosi che ne fotografano la fase d’inceppamento. Surclassato nei followers da Conte, tallonato – anche qui! – dalla Meloni, è evidente che il tipo di comunicazione salviniana non funziona più: tanto nei temi scelti quanto nei toni (“La bestia è morta”, è stata un’abile sintesi). Le parole di Giorgetti fotografano dunque un nuovo corso che sa d’antico: “Ci ispiriamo alla Lega lumbard delle origini”, dice chiaramente il ministro. La saldatura tra i ceti imprenditoriali del Nord con quelli impiegatizi del Centro-Sud, ciò che costituiva la scommessa di Salvini, sarà vagliata dai risultati delle amministrative, che tutti danno deludenti (“Non si sa se siamo messi peggio a Milano o Roma”, dicono in via Bellerio).

Potrebbe perciò volerci un’alleanza con partiti che ne sappiano meglio rappresentarne la voce, come fu all’epoca del patto Bossi-Fini siglato da Berlusconi: questo il senso di colloqui “riservati” che ci sarebbero stati tra Giorgetti e Di Maio. Più temibile invece la sfida della Meloni, che in questo fine settimana va per comizi nelle roccheforti leghisti, quali Arcore e Busto Arsizio, strappando persino piazza del Duomo a Salvini.

In evidente difficoltà, il leader del Carroccio si aggrappa all’ombrello draghista, anche lui con qualche camuffamento di troppo: “Il premier dice no a nuove tasse, dall’aumento dell’Imu alla patrimoniale, dà ragione alla Lega e boccia seccamente la voglia di tasse di Pd e 5 stelle. Molto bene, avanti così”, scrive su Twitter. Deformando non solo il senso del discorso del premier, ma dimenticandone in toto la parte sul green pass come “strumento di libertà e sicurezza per difendere i cittadini e i lavoratori e tenere aperte le scuole e le attività economiche”.

Salvini invece ieri era ancora attardato a parlare, in un comizio in Calabria, di “periodo cupo” dominato dal “pensiero unico” e si dichiarava “orgoglioso della libertà di scelta, di coscienza, di voto, lasciata ai suoi deputati sul green pass”. Il centrodestra arriva così a brandelli alla meta elettorale e rischia di lacerarsi ulteriormente quando sarà il momento della scelta del nuovo Capo dello Stato. Con Berlusconi ancora intento a fare i conti per una sua candidatura (giudicata “non plausibile” dal suo nemico storico Prodi), la Meloni pronta a puntare da subito su Draghi per arrivare alle urne o a un’intesa con l’opposizione (sul nome di Letta senior?) e Salvini confusamente indeciso a tutto.


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