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Non passano nemmeno ventiquattr’ore dall’appello di Mattarella per una politica che sappia guardare alto e concentrarsi sui grandi problemi del paese e torna il teatrino della zuffa continua. Questa volta lo scontro è sull’autorizzazione a procedere contro Salvini per il caso della nave Gregoretti ed è fra il leader della Lega ed il suo ex collega vicepremier Di Maio (quello che, sia detto per inciso, Salvini era disposto a designare come premier se accettava di far continuare l’alleanza gialloverde e che adesso definisce un piccolo uomo). La tentazione alla rissa è troppo forte in questa classe politica e da essa non riesce a disintossicarsi. Del resto il paese, o meglio quella parte del paese che si fa coinvolgere nella politica, è diviso in tifoserie, dominate, come è prassi in quel mondo, da “irriducibili” per cui lo scontro fazioso è il fine vero e dei problemi che ci affliggono importa poco.

Assistiamo al paradosso di componenti che chiedono l’uso di linguaggi meno aggressivi (le sardine), ma che però partecipano attivamente al gioco della divisione netta fra buoni e cattivi, angeli e demoni. E anche qui il tema è definire chi sta da una parte e chi dall’altra, mentre di discutere dei nostri guai nazionali e delle loro ragionevoli soluzioni non c’è traccia.
C’è da chiedersi cosa serve rilanciare sul piano giudiziario il confronto sulla linea demagogica scelta da Salvini per il contrasto all’immigrazione clandestina. L’impatto propagandistico della problematica si stava sgonfiando da solo, mostrando l’efficacia di una gestione responsabile del tema da parte del ministro Lamorgese nel quadro di una finalmente ritrovata diversa considerazione europea. Se si fosse potuto evitare il ritorno sulla scena della diatriba inutile sulla difesa dei confini sarebbe stato meglio. Non si dica che era impossibile: la procura aveva pur chiesto l’archiviazione della procedura contro Salvini.

Il fatto è che adesso la zuffa che si aprirà nella Commissione del Senato e poi in Aula riporterà in evidenza uno dei tanti pasticci di questa fase politica confusa. La tesi di Di Maio (e Conte) per cui nel precedente caso Diciotti ci sarebbe stata una decisione del governo, mentre nel caso Gregoretti tutto era imputabile al solo ministro dell’interno è debolissima: sia perché non ci sono atti governativi a sostegno nel primo caso, ma neppure atti di dissociazione nel secondo. La pubblica opinione percepisce anche troppo chiaramente che nel primo caso i Cinque Stelle hanno agito per la convenienza della maggioranza di allora e che adesso operano esattamente in senso inverso.

Tutto avverrà di fatto fra gennaio e febbraio, cioè nel quadro delle lotte per le elezioni regionali, e sarà naturalmente un moltiplicatore della demagogia, soprattutto nel campo di M5S che in quei contesti non è messo affatto bene (il PD, volendo, potrebbe anche cavarsela con maggiore signorilità, considerando le sue crescenti chance di vittoria in quelle competizioni). Si tratta però anche di un periodo delicato in cui sarà inevitabile mettere finalmente mano ad una serie di dossier che si stanno lasciando dormire nei cassetti.

Non si ricorda, ad esempio, che ci sarebbe la spinosa questione della revisione dei decreti sicurezza varati dal Conte 1. Qui, come minimo, si tratta di adeguarli ai rilievi, molto puntuali e specifici, sollevati dal Quirinale. Perché non se ne è fatto nulla? Per la semplicissima ragione che i Cinque Stelle sono in difficoltà ad ammettere pubblicamente che hanno allora quantomeno ceduto alla demagogia salviniana (ma in parte l’hanno anche condivisa, consapevoli di un loro elettorato che qualche cedimento in quelle direzioni ce l’aveva). Si aggiunga che c’è il timore che aprendo la fase di ridiscussione del provvedimento si possa cadere nelle spire delle richieste populiste cosiddette di sinistra, che vorrebbero totalmente invertire l’approccio al tema migratorio.

Ma una eventuale nuova versione della legge, che per brevità definiremo “lassista”, avrebbe un impatto non solo problematico sull’opinione pubblica (probabilmente a favore di Salvini e Meloni), ma ci metterebbe in difficoltà con i partner europei che non vedrebbero certo bene una nuova apertura della piattaforma italiana come scalo di flussi che poi si riverserebbero inevitabilmente anche su di loro.

Naturalmente questo è solo uno dei problemi con cui si dovranno fare i conti a gennaio. L’accensione del faro europeo sulla vicenda Alitalia è altrettanto preoccupante, perché si tratta di una vicenda che trascinandosi irrisolta da anni è divenuta un emblema della nostra incapacità di misurarci con nodi complessi (già ai tempi dei governi Prodi si discusse della cessione dell’azienda, poi arrivò Berlusconi con la trovata dei “capitani coraggiosi” e il disastro divenne irrefrenabile). Inutile ricordare la vicenda ex-Ilva, anche questa impantanata nella palude di un sistema di poteri di veto e di controllo così intrecciati e diffusi da impedire decisioni.
L’elenco può continuare senza difficoltà, fino a registrare casi si svolgono ormai nel sostanziale disinteresse dell’opinione pubblica come è l’impasse in cui è caduto il CdA della RAI per le beghe interne ai partiti (e non è senza significato che il rilievo pubblico di quest’azienda non faccia praticamente più notizia).

Insomma la nostra classe politica dovrebbe fare lo sforzo di prendere sul serio il monito del Presidente della Repubblica, che sa bene quanto discredito sul nostro sistema venga gettato dalla compulsione ad azzuffarsi che attanaglia i partiti. Non è questione di bon ton è un problema di autorevolezza delle istituzioni.


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