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Luigi Di Maio e Davide Casaleggio

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QUANDO sei in un labirinto umano di eventi e persone e non ci capisci più niente, affidati alla vecchia regola: “Follow the money”. Segui il denaro e vedrai che trovi il bandolo della matassa e anche la via d’uscita. Unica variante ammessa – ma in realtà coassiale: “Segui il potere”. Così, se vogliamo capire che cosa sta accadendo dentro la ex premiata ditta Casaleggio e il meno premiato e un diroccato Movimento Cinque stelle, possiamo usare entrambe i marker: i soldi e il potere. E cominceremo con capire che i deputati e senatori del movimento cinque stelle si sono stufati di versare ogni mese trecento euro alla Casaleggio della piattaforma Rousseau, e che il giovane Casaleggio, puro erede dinastico del padre si accorge di non essere più il re di un piccolo reame e neanche di una Scatola di Monopoli.

MANOVRA SILENZIOSA

Dunque, è cominciata una lenta e sotterranea manovra per scardinare le giunture che un tempo collegavano la creatura della piattaforma al movimento, che di fatto si doveva – si dovrebbe – comportare come i membri di un “cult”, cioè essere obbedienti e osservare le precise regole del convento.

Tutto è cominciato quando le regole tassative sono cominciate a saltare come sulle cuciture della pancia di uno che ingrassa e gli saltano i bottoni. Il divieto di non rielezione è saltato, il divieto di allearsi è saltato. Il divieto di parlare in pubblico è morto e sepolto da tempo. Come nella vecchia canzone di Charles Trenet, c’è da chiedersi “Que reste-t-il?” che cosa rimane di tutto ciò che rendeva questo aggeggio artificiale, una macchina da guerra.

In principio, se ricordiamo bene, c’era il verbo che era Grillo il quale parlava, parlava, sfotteva, sentenziava, condannava, rifiutava e dall’altra parte c’era questo mondo cyber politico della piattaforma di una società privata che si dichiarava proprietaria di un movimento politico rappresentato in Parlamento (roba da Corte Costituzionale del Nicaragua, dove bazzica il Dibba) e che guai a chi fa questo e guai a chi fa quell’altro. Una cosa da regime cinese dell’epoca imperiale, misto caccia alle streghe e ai conigli di campagna.

E allora, che cosa c’è di nuovo, qual è la notizia? La notizia è che il movimento della piccola costellazione di cartapesta arricchita da lampadine mignon per Luna Park, si sono resi conto di far parte del genere umano. E che ciò che stanno facendo è un partito. E che nei partiti deve comandare la maggioranza, oppure chi dà lo stipendio a tutti: non chi se lo frega, lo stipendio.

IL MAPPAMONDO DI LUIGINO

Così Di Maio se ne sta alla Farnesina a giocare col mappamondo come faceva Charlie Chaplin e intanto tiene d’occhio il partito, teleguidando col joystick quel poveraccio di Crimi che deve far finta di essere il “capo”. Capo di che? Non si sa. Intanto Beppe Grillo, dovendo fare comunque un matrimonio d’interesse con la sposa più ricca anche se meno illibata, ha scelto di impalmare Zinga con tutto il PD. Così facendo ha riscosso la benedizione di Scalfari che da anni dice che il M5S è soltanto una manica di scappati di casa, nel senso del Pd. Dunque, qualsiasi ritorno del figliol prodigo è benvenuto, tanto siamo tutti parenti e si ammazzi il vitello grasso, che non si capisce se dovrebbe o no essere il presidente del Consiglio al quale lo stesso Di Maio ha consigliato di riprendere la tessera, ma senza dargli prospettive.

Così Conte è rimasto un po’ sul valà senza sapere bene se farsi il partito suo o di un altro. Dibba, gira sempre nella notte, ma anche di giorno mascherato da spazzacamino. Fico lo saluta e gli cala giù il paniere con la corda e intanto – Fico – fa sapere che a lui quelli del Rousseau gli fanno un baffo e così il Casaleggio baby diventa sempre più triste e scrive proclami tutto da solo, sentendosi sempre più solo. I parlamentari dicono che non vogliono più scucire un dollaro o tallero o euro, quanto alla rieleggibilità fanno come gli pare, il Casaleggio si butta sulla Raggi, pur sapendo che è un caso estinto, chiuso, irrevocabile, catastrofico e chiama a raccolta le sue truppe sfidando così Zinga che, presidente della Regione Lazio, fa a capelli e torte in faccia con la Raggi dalla mattina alla sera e si odiano che è una bellezza.

Que reste-t-il? Un vecchio campanile.? Un volto fra le nubi? Nulla. Non resta un cavolo. E allora, spettacolo meraviglioso, le meglio penne della giornalistica ermeneutica proparossitona diagonale, si mettono al violino e fanno il pezzo dell’analisi accurata del caciocavallo della politica e danno il meglio di sé del semolino. Eppure, il fatto è semplice. Prendete il famoso 25 luglio quando cadde il fascismo. Come cadde? Una rivoluzione? Ma no. Un colpo di Stato? Non esattamente, fuochino. E allora?

ACCADDE AL DUCE

Allora il piccolo re che c’era a quei tempi si mise d’accordo con alcuni membri del Gran Consiglio del Fascismo (che era, pensate, un organo costituzionale) e quelli votarono un semplice ordine del giorno che diceva: da oggi il supremo comando militare torna nelle mani del Re. Punto. La mattina dopo Mussolini andò a villa Savoia sperando di rappezzare e fu arrestato e portato via con un’ambulanza piena di carabinieri. Fine del ventennio. Il principio di realtà era tornato in sella dopo il bombardamento di Roma perché è nelle disgrazie che si forgia la disgrazia.

Ora, i Cinque Stelle sanno benissimo che sono sovrarappresentati in Parlamento ma sanno anche che nessuno li schioda per altri due anni durante i quali possono fare quello che vogliono. Per esempio, mandare a quel Paese i piattaformisti e i terrapiattisti, facendo marameo quando gli chiedono il denaro. Poi si vogliono fare le liste in modo da avere qualche straccio di probabilità di essere rieletti. Come tutti. E cambiano casacca e voltano gabbana. Se si tratta di salvare la pelle. Si coagulano in correntine e cordatelle, e non ne vogliono più sacre del Casaleggio baby, che anche Beppe lo snobba perché mica si crederà di essere suo padre e poi semmai dice lui che cosa si deve fare e Grillo vuole maritarsi, l’abbiamo detto con lo Zinga, perché dal PD si sente protetto, sia di spalla che di petto, mentre con quella roba del filosofo ginevrino si sente – finalmente – ridicolo.

BASTA PIZZO

Quindi se segui il denaro, scopri che questa frenata di metropolitana arrivata in Parlamento e altre assemblee elettive si è stufata di pagare il pizzo, ha capito come si fa la politica e anzi possono insegnarlo al ragazzo che ancora pensa di avere in casa il vaso del Sacro Graal quando al massimo ha Topo Gigio. E allora, siccome non il coraggio proprio la prima delle loro virtù, anziché dire papale papale come stanno le cose, hanno cominciato una manovra di contorsionismo da valigia col mago che mangia il fuoco e poi ingoia spade e carte e sputa sentenze. E parlano di modifiche del regolamento e puntualizzano, e fingono di accapigliarsi su delle note a margine e fanno molta ammuina, che poi è la loro ultima spiaggia.

Ma intanto hanno cominciato ad avere il rispetto che la realtà sia la realtà, che la politica segua una logica storica che non è piattaforma e dunque tira miglior vento per la per perché il sistema delle votazioni in famiglia e dei clic fra carbonari porta soltanto ridicolo e povertà, oltre che io ladri in casa. È ancora presto per dirlo, ma se questi sono i segni, allora potremmo dire che è cominciata una metamorfosi che è anche una dissoluzione del movimento che in pratica sta rinnegando sé stesso, e questo è un bene, ma non ha la più pallida idea della propria identità: che cosa sia, chi ce l’abbia e dove abiti.


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