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Il murale dedicato alla sindaca di Roma, Virginia Raggi

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Parliamo delle corse a sindaco, così ci distraiamo un po’. Sembra questo il ritornello della politica, almeno di quella che filtra sui media, stile “caro amico ti scrivo” di Lucio Dalla. Mentre si sta in bilico al senato sulla questione dello sforamento di bilancio che va al voto fra mercoledì e giovedì, mentre cresce nel paese l’angoscia per un’epidemia che rialza la testa e mette a rischio la tenuta dell’economia, mentre non si riesce a costruisce uno straccio di coesione nazionale sulla pianificazione per l’utilizzo dei fondi UE (come raccomanda Mattarella), si discute di come far sì che il prossimo test elettorale, quello che porta al voto per il sindaco città importanti e simboliche come Roma, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Trieste, sia un’occasione per rinsaldare la coalizione di governo e il suo premier.

Tutti conti che si stanno facendo nella vecchia logica dei caminetti che stanno a Roma, dove i partiti proverebbero a scambiarsi le figurine come i ragazzini con l’album dei calciatori: se ti do Roma, tu cosa mi dai in cambio? Come se davvero tutto stesse nelle mani di quei dirigenti che studiano a tavolino le combinazioni e si ignorasse che ormai l’elettorato è, come si usa dire, liquido e non vota certo con l’occhio a fare un piacere o un dispiacere al governo nazionale (come anche l’opposizione ha ormai avuto modo di verificare).

È comprensibile che comunque in questa occasione si parta dalla questione di Roma: non solo perché è la capitale, ma perché ci si illude sia la madre di tutte le battaglie. Infatti nella Città Eterna c’è una singolare situazione di debolezza e forza insieme dei Cinque Stelle. Debolezza perché hanno una candidata senza possibilità, come sanno benissimo, una che si è autocandidata giusto per vendere cara la sua pelle. Forza perché cedendo eventualmente su quel tavolo molto simbolico, ma in realtà a prezzi di saldo, possono fingere di avere rinunciato a molto e pretendere di conseguenza un congruo risarcimento dagli alleati su altre piazze.

Difficile pensare che dei politici scafati come quelli che dirigono i partiti non siano consapevoli del bluff. Solo che per varie e ormai notissime ragioni non vogliono mettere in discussione una alleanza con M5S che è per loro essenziale per affrontare la battaglia per la scelta del successore di Mattarella. Qui, in verità, un’opposizione un po’ più furba avrebbe ottimo gioco a mandare i Cinque Stelle in panchina: basterebbe che si accordasse col PD e alleati per una candidatura al Quirinale largamente condivisibile (il solito Draghi o qualcosa di simile) e gli ex grillini avrebbero tagliate quel poco di unghie che è rimasto loro. Fortuna per Di Maio e soci che l’opposizione non sa più far gioco di movimento, ma si limita a guerre di trincea.

Così la vicenda delle elezioni municipali romane può essere giocata come una grande partita dentro la coalizione di governo. Tocca in questo caso davvero al PD mostrare la capacità di dare le carte, non facendosi irretire dai mantra della passata stagione politica. Il Nazareno parte con uno svantaggio che potrebbe anche diventare un vantaggio: non ha un suo candidato interno all’altezza della disfida. I campioni che in teoria avrebbe potuto mettere in campo si guardano bene dall’accettare: sono personalità che hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare ad infilarsi nel ginepraio (per non usare termini più urticanti) della gestione del Campidoglio. Vedrebbero semplicemente la probabile fine delle loro carriere politiche. Potrebbero trasformare questo in un vantaggio, mostrando che non è ad un loro uomo-bandiera che sono affezionati, ma al futuro della Capitale. La difficoltà è che questo probabilmente vorrebbe dire accettare la candidatura di Calenda, uomo con gli attributi giusti per buttarsi nell’impresa quasi disperata di mettere ordine nel Comune di Roma, ma personalità che certo non apparirebbe come un sostegno alla alleanza strategica coi Cinque Stelle. Coloro che lo invitano a convertirsi a questa prospettiva, non tengono conto che con tutta l’esposizione mediatica che Calenda ha avuto come avversario dei Cinque Stelle e delle loro capacità di governo è improbabile che la gente non prenderebbe per poco accettabile una sua conversione senza fede e dunque scopertamente opportunistica.

Del resto è anche molto difficile annegare la vicenda romana nel più ampio contesto di quelle per le altre città simbolo. Se si eccettua Torino, dove la Appendino potrebbe anche ambire a rimanere per un secondo mandato, in nessuna delle altre città i Cinque Stelle hanno uno straccio di personalità spendibile per raccogliere un largo consenso. È vero che potrebbero provare ad inventarsi qualcosa di simile a quanto fatto con Giuseppe Conte, ma sono operazioni che non si ripetono facilmente, soprattutto adesso che M5S non è più nelle splendide condizioni del 2018.

Può darsi che, come suggerisce qualcuno, a favore di qualcosa di simile si spendano forze importanti (come avvenne a suo tempo e come sempre più sta avvenendo per l’attuale premier), ma qui si tratta di elezioni, non di scelte che si realizzano nel chiuso dei negoziati fra i gruppi politici. La geografia delle città coinvolte è molto variegata e lo spirito municipale in tutte è molto forte. In nessuna si possono mettere in atto in maniera veramente efficace condizionamenti che provengano dal centro.

Tutto poi si giocherà fra molti mesi nella tarda primavera prossima e bisognerà vedere come il paese ha passato l’autunno e l’inverno. Inutile pensare che possiamo conoscere adesso il clima che arriverà allora.


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