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La Camera dei Deputati

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Pandemia, pandemia, tutti gli altri problemi se li porta via. Lasciateci iniziare con un po’ di leggerezza, perché dobbiamo parlare di problemi gravi. L’incremento notevole dei contagi crea un giustificato allarme nel mondo politico, ma anche fa innalzare il livello di tensione, se non addirittura di angoscia nel paese. Un certo ottimismo con cui si era affrontato il primo lock down non è più possibile e questo ha ricadute evidenti nello spirito pubblico, tanto più che adesso ci si sta rendendo conto che non esistono isole felici. Il virus colpisce duramente regioni del Sud che nella prima fase erano state risparmiate, mentre non rallenta la sua presenza in altre dove aveva avuto allora una presenza massiccia (segno che non c’è da far tanto conto sulla storiella dell’immunità di gregge, non almeno come qualcosa che si realizza in pochi mesi).

Questo andamento ha messo in crisi la prima strategia di risposta che il governo aveva elaborato all’inizio di questa seconda ondata: un approccio morbido a livello centrale, lasciando alle regioni di assumere eventuali misure più restrittive e dunque più impopolari. Non ha funzionato, ma soprattutto è sembrato discutibile lasciare spazio alle necessità di protagonismo dei governatori, che non possono far finta di nulla, pur avendo poteri più limitati di quanto non si creda, perché il tema è oggi l’ordine pubblico, non la spesa sanitaria (dipendente da risorse che peraltro devono pur sempre arrivare dal centro).

Adesso i partiti della maggioranza chiedono a Conte di uscire dall’indeterminatezza, perché si rendono conto che questa avrebbe un costo in termini di consenso che non sono in grado di affrontare. Anche i partiti di opposizione cominciano a ragionare seriamente su quanto possa risultare vantaggioso continuare in una critica a tutto campo, perché non sfugge che alla fine la gente chiederà loro: ma voi, in concreto, cosa proponete di fare e cosa siete in grado di offrire?

Una situazione di questo tipo dovrebbe favorire un recupero del parlamento come luogo di elaborazione della risposta del Paese alla crisi generata dall’epidemia. Diciamo subito che non è una soluzione facilmente accessibile. Da un lato c’è una questione pratica che non si vuole affrontare ed è quella di dotarsi di modalità perché le Camere possano lavorare anche non in presenza, visto che i contagi non risparmiano la classe politica e che questo ha riflessi sulla loro efficienza. Invero su questo aspetto è incomprensibile l’ostilità diffusa ad utilizzare strumenti per il lavoro da remoto, strumenti già adottati dalle assemblee di altri paesi. Il sospetto è che chi si oppone voglia tenersi aperta la possibilità di fare qualche politica corsara nel caso le assenze aprissero varchi per qualche colpo di mano. Sarebbe davvero un esempio di meschinità politica, che non troverebbe il favore popolare.

Dal lato opposto c’è il tema di come passare dal parlamento palcoscenico delle sceneggiate a pro di telecamere al parlamento che lavora a costruire un consenso allargato e consapevole nel paese. Anche qui non serve prendersela con questo o quel politico affamato di spettacolarizzazione. Bisogna affrontare seriamente il problema di come il governo, nelle cui mani inevitabilmente sta il potere di iniziativa in un contesto di emergenza, intenda usare le Camere per costruire consenso o per promuovere prove di forza per blindare la sua (incerta) maggioranza. Come si sta già vedendo, lo strumento principe, lasciati da parte i DPCM che funzionano fino ad un certo punto, è il decreto legge. L’atto viene dalla responsabilità collegiale del governo, fa un passaggio al Quirinale, ma deve venire validato dalle Camere, altrimenti decade. In tutti questi passaggi si dovrebbe porre la massima attenzione a farne dei veri e convincenti appelli alla concordia del paese, innanzitutto rendendo comprensibili gli obiettivi che si perseguono. Dunque niente provvedimenti carrozzone, in cui si comincia dando qualcosa a ogni componente della coalizione a prescindere dalla rilevanza dei temi che propone, niente decreti omnibus in cui si dà occasione a varie burocrazie di infilarci la normetta per sistemare un problemino che sta loro a cuore, che così passa agevolmente nella confusione del tutto.

Soprattutto niente ricorso al voto di fiducia, che alla gente trasmette l’idea di un braccio di ferro fra i partiti, non di una ricerca di un consenso allargato (si deve fare solo come estrema ratio). Ovviamente questo richiede responsabilità, e non poca, anche da parte delle forze parlamentari Sarebbe sempre meglio che i decreti avessero qualche passaggio preventivo di confronto informale anche con le opposizioni, che però devono impegnarsi a non giocare semplicemente allo sfascio. Comunque andrebbero gestiti i dibattiti con quella oculatezza dovuta al fatto che li sta guardando un paese angosciato e pieno di preoccupazioni. Il pubblico non è composto per la maggior parte da pasdaran che si beano nel vedere i duelli fra gli avversari, ma da gente che sa capire chi fa demagogia e chi lavora per quello che una volta si chiamava il bene comune. E se ne ricorderanno al momento delle scelte elettorali, più di quanto faccia supporre il mito della dipendenza di tutto dal mondo virtuale dei talk show e dei social.


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