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Palazzo Chigi

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La corretta ripartizione delle risorse pubbliche tra le diverse aree del Paese è un elemento sostanziale per l’adeguato funzionamento delle istituzioni e per il godimento di un pari livello di servizi pubblici essenziali da parte dei cittadini. Non sembra che questa semplice enunciazione trovi generale adesione; forse meglio, non è contestata, ma non trova effettiva applicazione quando si tratta di ripartire le risorse tra le diverse Regioni. Per un verso sopravvive, con pochi correttivi, il criterio della spesa storica, che conserva situazioni di privilegio e perpetua la permanenza di squilibri nella erogazione dei servizi.

Chi ha ricevuto di più in passato, o ha avuto maggiore capacità di spesa, mantiene nel tempo la maggiore disponibilità di risorse. Per altro verso Il così detto federalismo fiscale, introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della costituzione, dedicato alle Regioni ed agli enti locali, alimenta la pretesa ad una maggiore attribuzione di risorse, facendo in particolare leva sulla compartecipazione delle Regioni e degli enti locali al gettito di tributi erariali riferibili al territorio.

Che vi sia un evidente squilibrio tra i servizi pubblici resi in aree diverse del Paese è reso evidente, nell’attuale contesto, dalla diversa disponibilità di cura e capacità di accoglienza nelle strutture ospedaliere offerta a chi abbia necessità di terapie intensive. Meno percepito dalla generalità dei cittadini, eppure egualmente significativo, lo squilibrio in altri settori essenziali per la vita familiare e collettiva, in particolare nei settori dell’assistenza e della formazione e istruzione. Per cogliere il divario è sufficiente osservare la rilevante diversità della spesa pro capite tra le Regioni, messa in luce da questo giornale sulla base di dati ricavati da fonti ufficiali, e che penalizza largamente il Sud del Paese.

Tutto ciò risponde al principio autonomistico, oppure tende ad una trasformazione dello stesso in principio separatistico ? La costituzione afferma il primo, collocando il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali tra i principi fondamentali. Ma esclude il secondo, giacché assicura allo stesso tempo l’unità della Repubblica, che non è solamente territoriale, e garantisce l’eguaglianza dei cittadini, anche nel godimento dei diritti sociali. Il così detto federalismo fiscale, forse meglio la sua corretta attuazione, non può contraddire questa impostazione , che risponde al principio di solidarietà che caratterizza l’intera costituzione.

È vero che, come molti osservano, la riforma del 2001, affrettatamente approvata a fine legislatura con una ristretta maggioranza, ha reso problematici i rapporti tra Stato e Regioni. Lo dimostra il gran numero di ricorsi annualmente proposto alla Corte costituzionale per determinare l’ambito delle rispettive competenze. Tuttavia, senza attendere una futura e complessa nuova riforma costituzionale, si possono, forse meglio si devono, utilizzare gli strumenti che la costituzione già prevede per assicurare un corretto assetto dei rapporti tra Stato e Regioni, come pure nella condizione finanziaria di queste ultime.

Nell’affermare l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni, la costituzione non offre una visione separatista delle autonomie, non intende mantenere e perpetuare gli squilibri esistenti, non accantona solidarietà ed eguaglianza. La disciplina costituzionale del federalismo fiscale, quale è disegnato dall’articolo 119 della costituzione, richiede la istituzione di un fondo perequativo senza vincoli di destinazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Vale a dire che la compartecipazione al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio, che avvantaggia le Regioni più ricche, deve essere riequilibrata, anche nel suo ammontare, dal fondo perequativo. Per soddisfare quanto la costituzione prescrive, non è sufficiente che questo fondo sia istituito; il suo ammontare deve essere pienamente commisurato alla finalità perequativa perseguita.

Non basta, lo Stato deve destinare risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, rimuovere gli squilibri, assicurare la coesione e solidarietà sociale, favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona nelle aree svantaggiate. Non è una visione assistenziale. Al contrario, si vuole assicurare sviluppo, con interventi che riguardano anche le infrastrutture, le reti, i servizi pubblici resi ai cittadini.

Può darsi che in alcune Regioni alla inadeguatezza delle risorse si aggiungano le inefficienze della pubblica amministrazione locale. Ma ancora una volta lo Stato ha lo strumento per intervenire, senza attendere la introduzione di una chiara clausola di supremazia. Il Governo può sostituirsi agli organi delle Regioni quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Può darsi che siano strumenti difficili da maneggiare; ma questo non giustifica l’astenersi dall’usarli o l’usarli male, come mostrano le vicende dei Commissari governativi per la sanità in Calabria.


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