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Palazzo Chigi

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Manovre. Certamente di carta e di parole (sui giornali e sui media), probabilmente anche nei retrobottega della politica. Ci riferiamo al ritorno in primo piano della questione “rimpasto”, impossibile nell’immediato causa epidemia e sessione di bilancio, ma almeno in teoria praticabile a gennaio, anche se con qualche difficoltà. Il quadro peraltro è a dir poco confuso e proviamo a chiarirlo un poco.

Il rimpasto avrebbe il vantaggio di non sfilare la poltrona a Conte, perché continuerebbe il governo attuale. Vantaggio non piccolo stimano alcuni, pensando che così si evitano i cavalli di frisia che il premier e i suoi stanno costruendo attorno a Palazzo Chigi. Altri fanno osservare che però un rimpasto serio che introducesse nuovi ministri di peso, vuoi tecnico, vuoi politico, ridimensionerebbe comunque Conte e la sua squadra cosa poco gradita ai diretti interessati. Un rimpasto per sostituire qualche ministro con personaggi di secondo piano sarebbe un inutile sfregio ai titolari sostituiti e non segnerebbe nessun “cambio di passo”.

Naturalmente va considerata la difficoltà di fare un rimpasto nell’attuale sistema vigente. Il premier non può dimettere nessun ministro, né i vari partiti di riferimento hanno alcun potere formale di rimuoverlo. Con la situazione interna a tutti i partiti la capacità di moral suasion dei capi verso i loro ministri è ad essere ottimisti bassina. Dunque i ministri se ne vanno solo se si dimettono, ma se lo fanno autocertificano la loro incapacità: una specie di comma 22 che rende difficile gestire questo passaggio.

La soluzione classica sarebbe invece la crisi pilotata: il premier si dimette e così decade l’intero governo, sicché nel farne uno nuovo non ci sono vincoli sulle persone da inserire. Tutto sarebbe appunto pilotato perché nel giro di pochi giorni il dimissionario viene reincaricato, accetta senza riserva, ha già in tasca la lista dei ministri e va subito alle Camere dove sa di avere una maggioranza certa che gli voterà la fiducia. Solo a leggere questa trafila qualsiasi lettore si renderà conto di quanto sia aleatoria la possibilità che un percorso simile si verifichi senza intoppi. E ovviamente al primo intoppo salta tutto e si apre una crisi vera che di pilotato non avrà più nulla.

Si tenga conto che se si deve rinnovare tutto un governo, non si parla solo dei ministri, ma anche dei viceministri e sottosegretari, figure niente affatto secondarie, soprattutto in vista della gestione che si dovrà fare dei famosi 209 miliardi di fondi europei. Per quanto Conte cerchi di blindare tutto a Palazzo Chigi (correndo il rischio che se non ci rimarranno lui e i suoi assegni al suo successore una bella quota di potere), non sarà possibile fare tutto senza coinvolgere in qualche modo vari ministeri. Anche se si parlasse di briciole, con una torta così grande a generarle sono briciole succulente: dunque appetiti a non finire per quei posti.

Insomma controllare un passaggio sotto forma di rimpasto o di crisi più o meno pilotata è un bel rebus. L’operazione si dice andrebbe fatta a gennaio, ma allora rimane la possibilità che, se tutto si incarta, si possa ricorrere alle elezioni anticipate. L’ipotesi è preoccupante, per non dire terrorizzante per tutte le forze politiche. Si sta varando la riforma dei collegi, obbligatoria per via del pastrocchio grillino del taglio del numero dei parlamentari fatto senza inserirlo in alcun orizzonte. Questo significa misurarsi non solo con un numero di seggi molto diminuito rispetto agli attuali, ma col 37% di rappresentanza eletta in collegi uninominali enormi (oltre un milione di elettori ciascuno) e con quelli senatoriali ancora legati al requisito della regionalità che crea non pochi squilibri nella distribuzione dei consensi fra i partiti.

Vari osservatori ritengono, non infondatamente a nostro avviso, che questa prospettiva sia la vera assicurazione sulla vita per l’attuale premier e forse anche per il suo governo. Se è vero come lasciano intuire molti segnali che la geografia del sistema politico è in evoluzione, bisogna pur darle il tempo di assestarsi. Aiuterebbero oltre alle evoluzioni di qualche attore, un paio di passaggi istituzionali. Per esempio c’è da vedere se l’attivismo di Di Maio a costruirsi un profilo da politico maturo (da statista ci sembra troppo) riesca a tirarsi dietro M5S e sia fondato o se, come ha detto sarcasticamente la Bonino, sia prudente distinguere nelle conversioni fra San Paolo e Zelig.

Poi c’è il tema della coalizione per coprire in maniera adeguata la casella del Quirinale che vedrà la fine del mandato di Mattarella. Trovare un candidato con l’autorevolezza e la caratura politica per gestire la travagliata transizione della politica italiana non sarà un’impresa facile e non sappiamo quanto nell’attuale parlamento ci sia la consapevolezza diffusa che la delicatezza del contesto deve portare a lasciar nell’armadio bandiere e bandierine di parte.

Infine c’è il tema della riforma della legge elettorale. È abbastanza evidente che al momento solo un sistema proporzionale darebbe il modo a tutti di testare le proprie forze per vedere poi come si possono trovare le convergenze per creare ragionevoli maggioranze di governo. È però altrettanto scontato che questo non può voler dire lasciare la libertà di fiorire a decine di partitini più o meno personali o pseudo identitari che poi renderebbero impossibile qualsiasi sintesi che regga nel tempo (il che significa non rinunciare ad una soglia di sbarramento significativa). E questo sarà il principe di tutti i rebus sul tappeto.


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