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Il presidente Giuseppe Conte

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Come nella più classica delle telenovele (ma basta anche un romanzetto d’appendice) si va avanti con mosse, contromosse e tante finte. Il problema della crisi politica, come si è già avuto modo di scrivere, è come uscire dalle sabbie mobili in cui tutti si sono infilati. Che una qualche svolta debba esserci è inevitabile, quale possa essere non è ancora deciso.

Sembra si siano fatti sostanziosi passi avanti per quel che riguarda le prospettive di azione sia per la gestione dei fondi del Next Generation Eu sia per sistemare qualche situazione problematica, tipo la faccenda dei servizi segreti. Adesso più che mai si evidenzia l’osso della contesa: una revisione della geografia dei poteri.

LO SPAURACCHIO

Riducendo la questione ai minimi termini la si può riassumere in questo modo: Conte può restare essendo ridimensionato o anche se resta così tornerà a cercare di espandere il suo potere?

È chiaro che da più punti di vista una sua conferma risolve molti problemi: non umilia i Cinque Stelle, che possono così conservare i posti dei loro capi nell’esecutivo; non apre una questione di successione molto delicata da gestire per il Pd; evita che si possa arrivare come presidente del Consiglio a un “esterno” di notevole caratura che metterebbe in ombra il potere dei partiti e che sarebbe difficile da condizionare ai loro desiderata.

Però c’è il problema di come evitare che Conte, ma soprattutto quelli che eufemisticamente alcuni giornali chiamano i suoi cattivi consiglieri, possano approfittare della sua permanenza al potere per andare avanti coi loro piani.

Per dirla con una battuta: bisogna far sì che il Conte 3 veda davvero un Bisconte (come lo chiama Cerasa sul Foglio) dimezzato e non sia semplicemente un Conte 2.1. Questo è il dilemma che si trovano di fronte molti dei protagonisti di questa crisi strisciante. Dunque ci si deve muovere con attenzione, perché quello spauracchio dello scioglimento anticipato della legislatura, che si dà per esorcizzato, non esca dalla sua prigione liberato da qualche mossa improvvida nel quadro di questa politica balcanizzata.

È questo contesto che rende difficile una soluzione che si basi solo su una revisione del Pnrr (importante, ma alla fine le parole tali sono e tali rimangono…) o su qualche altra concessione di facciata (rinuncia di Conte alla delega sui Servizi per cederla a un suo uomo).

LA CRISI PILOTATA

Sebbene ci si debba affrettare a mostrare fastidio per qualsiasi discorso sulle “poltrone”, alla fine queste sono una componente non eliminabile. Ma qui cominciano i guai. Cavarsela con una semplice sostituzione di due o tre posizioni ministeriali, il cosiddetto “rimpastino”, può evitare il passaggio per le dimissioni del governo in carica che potrebbe limitarsi a essere riconfermato con un voto di fiducia alle Camere, ma è meno praticabile di quel che si pensi.

Si dovrebbe fare costringendo alle dimissioni alcuni ministri, operazione pesante, come si può immaginare, e sicuramente non si toccherebbero che figure o senza copertura di partito (la Lamorgese, che proprio non se lo merita) o prive di centralità (su cui peserebbe però un giudizio di cattiva performance). Piuttosto complicato e anche a rischio di contraccolpi da parte delle vittime di questa operazione.

Per questo la via maestra è la crisi pilotata. Così si azzerano tutte le posizioni, nessuno si deve dimettere, ma semplicemente i partiti, come sempre avviene, indicano per il nuovo esecutivo i loro personaggi migliori (uomini e donne) e ne negoziano la collocazione. Nasce un governo nuovo che si forma su un progetto di risposta all’emergenza e alle contingenze attuali con un personale che la coalizione giudica il più adatto a gestire questi tempi calamitosi.

Cosa osta a questa soluzione? Innanzitutto il tempo. L’operazione messa così è abbastanza complessa e giustamente si teme che i partiti non siano in grado di chiuderla con i tempi fulminei che richiederebbe una crisi pilotata.

Se il negoziato si dilatasse, non solo risulterebbe pericoloso mentre si sta affrontando una pandemia che richiede interventi continui (vedi i balletti sulle chiusure e sulle aperture) e questo darebbe spazi di assalto alle opposizioni (è la dialettica democratica, inutile lamentarsi), ma si rischierebbe che nello svolgimento del negoziato saltino le ipotesi frettolose di intesa.

I RISCHI DI CONTE

È il premier Conte che rischia di più, è ovvio. Chiusa l’esperienza del suo attuale governo non ci può essere una garanzia assoluta che egli succeda a se stesso. Se teme questo rischio, i suoi “cattivi consiglieri” lo temono anche di più, perché sono i più sacrificabili nel passaggio. Il fatto è che Conte si è giocato nella gestione dell’ultima fase moltissimo del suo credito e questo lo ha indebolito. Aggiungiamoci che varie scelte fatte nella gestione della pandemia non hanno brillato né per risultati, né per lungimiranza. Infine non è una guida capace di tirarsi dietro una compagine, sicché con un esecutivo che vedesse crescere la presenza di ministri di competenza e rilievo potrebbe non trovarsi molto a suo agio.

Per tutte queste ragioni ci sembra che Conte sia poco incline a darsi da fare per la soluzione della crisi pilotata, consapevole in fondo che lo sarebbe da altri e non da lui. Ma se non riesce a spuntarla con la modesta soluzione del Conte 2.1, cosa che ci sembra difficile, dovrà affrontare quel passaggio e allora, comunque vada, ne uscirà più che dimezzato.


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