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Giuseppe Conte

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Giallorosso, come il peccato originale Mettiamola così: in attesa che Mario Draghi faccia il governo dei migliori, il cronoprogramma serve eccome. Solo che Roberto Fico ieri avrebbe dovuto consegnare nelle mani del capo dello Stato non quello per il futuro della maggioranza giallorossa, che allo stato latita e chissà se mai prenderà consistenza.

Quanto quello del passato, dell’estate 2019, la stagione del Papeete, dell’avvocato del popolo che in Senato mette la mano sulla spalla del suo ministro dell’Interno spiegandogli che non ha cultura istituzionale, del trasformistico oplà che rovescia la maggioranza ma lascia in sella il medesimo Conducator: qualcuno ha da ridire? No? Bene, voto di fiducia e in posa sorridenti per la foto opportunity.

È lì il peccato originale che macchia il Conte bis senza che nessuno abbia mai intonato il mea culpa. Se oggi l’esecutivo giallorosso è andato in tilt, se adesso rimettere insieme i cocci della coalizione che doveva annichilire il barbaro Salvini è diventata una scalata che forse neppure Messner…, beh è perché allora in tanti, diciamo pure troppi, fecero finta di nulla, accettarono in buona o cattiva fede che il mondo si rovesciasse nel suo contrario, trovando ciascuno la sua convenienza. A scapito della coerenza e della linearità degli impegni presi con i cittadini.

Le difficoltà sul programma, la distanza sui provvedimenti per frenare il contagio da Covid, i contrasti sul Recovery plan, lo scontro sulla giustizia c’erano già allora, alcuni in nuce altri squadernati. Era in quel momento che bisognava fare chiarezza, convocare tavoli (non Stati) generali specifici, discutere nel dettaglio cosa fare e come.

Soprattutto era allora che bisognava chiarire se Giuseppe Conte era l’uomo per tutte le stagioni, monumento al camaleontismo politico-istituzionale, oppure il salvatore della Patria che metteva all’angolo il sovranista che voleva i pieni poteri, il leader venuto da nulla e diventato l’inviato della provvidenza (con la p minuscola), in grado di affrontare con sobrietà, compostezza e un’alluvione di Dpcm, il peggior flagello sanitario del dopoguerra.

Invece allora tutto filò liscio al ripario della reciproche strumentalità e convenienze. Matteo Renzi fu l’artefice del capovolgimento necessario per lasciare Conte a palazzo Chigi. Allora come ora il suo incubo erano le elezioni anticipate e quale migliore scudo per allontanarle che gridare al pericolo del centrodestra populista e antieuropeista ma pericolosamente vincente se le urne si fossero aperte?

Il Pd, che pure con Zingaretti in un primo momento aveva lucidamente evocato le elezioni, a stretto giro si ingolosì della possibilità di tornare al governo. Chi l’avrebbe immaginato dopo il disastroso 18 per cento renziano (a proposito: i voti sono quelli presi dall’ex rottamatore, i numeri Democratici in Parlamento erano e restano quelli), di poter cioè rientrare dalla porta principale del potere dopo i dileggi delle urne?

Vero è che il nuovo segretario provò chiedere una discontinuità sulla poltrona di presidente del Consiglio. Ma Bettini già sussurrava all’orecchio dello stato maggiore del Nazareno la melodia del ritrovato equilibrio con i Cinquestelle. Come è andata a finire è noto.

Per non parlare del MoVimento. Traumatizzato dall’abbraccio con Salvini che gli aveva succhiato metà dell’elettorato, non parve vero continuare la galoppata di governo senza dover cambiare né destriero né hildago. E, of course, neppure incarichi ministeriali. In qualche caso addirittura migliorandoli.

Fu così che le elezioni, che non solo a Renzi ma anche a tutti gli altri mettevano paura, furono accantonate. Ma accantonata fu anche la coesione della nuova maggioranza e la linearità fu sacrificata sull’altare delle riforme costituzionali, accettando il taglio dei parlamentari in cambio della promessa di altri interventi ancora da inverare, oppure chinando il capo sull’abolizione della prescrizione e il fine processo mai: entrambi capisaldi della narrazione grillina. Entrambi macigni sul percorso del Conte 2, allora aggirati con leggerezza e che oggi è davvero complicato rimuovere.

In realtà la verifica invocata nelle ultime settimane prima delle dimissioni di Conte era in ballo fin dall’inizio. Solo che tutti i componenti del rissoso sodalizio avevano fatto finta di non vederla. Quando a torto o a ragione, scontando le ipocrisie e le scorribande, si è palesata, è venuto giù tutto come su un palcoscenico di cartapesta. Adesso bisogna rimettere in piedi sfondo e proscenio: può farlo solo un personaggio di altissimo profilo. Il capo dello stato ha scelto Mario Draghi, il papa straniero. Per togliere il peccato originale sarà obbligatorio battezzarsi: chi comincia?


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