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Enrico Letta

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Un programma (vasto) per il nuovo PD. Indubbiamente questo ha voluto essere il discorso di insediamento di Enrico Letta, ma ci si dovrebbe chiedere: un programma per quando? Dubitiamo infatti che lo si possa considerare un impegno per l’immediato, perché il partito non ha né la posizione, né la forza per imprimere un suo marchio specifico sull’azione del governo Draghi.

Certo può sostenere, a ragione, che nel programma dell’esecutivo ci sono molte cose che si trovano anche nei suoi obiettivi. Lo stesso, per la verità, fanno Salvini e anche Berlusconi. Ma si tratta ovviamente di obiettivi ragionevoli sui quali può esserci un consenso abbastanza vasto da spiegare perché anche Draghi e i suoi li condividevano da tempo.

Per il resto sono cose a futura memoria. Alcune anche abbastanza inconsistenti come il voto ai sedicenni, che potrebbe anche allargare la platea dei votanti più giovani, ma evitando di chiedersi se in questa società senza canali di formazione e con il dominio fra i giovanissimi ancora di ideologie demagogiche e utopistiche sia proprio la cosa più sensata aumentare il peso di questi fattori.

Altre più che ragionevoli, come lo ius culturae per gli immigrati, che però non si vede come possano trovare ora il sostegno parlamentare necessario. Ma in questo caso si tratta di una abile mossa per pestare la coda di Salvini, che prontamente abbaia, sicché i militanti possono vedere che il PD non va a braccetto della Lega nonostante la coalizione governativa obbligata.

Dunque il programma è inevitabilmente per il dopo Draghi, quando ci sarà una prova elettorale che consenta di passare ad un “governo politico”. È a quella scadenza che guarda Letta, giustamente perché quello è il compito del segretario di un partito politico. Allora però la prima questione che l’osservatore si pone è quando si pensa sarà collocato quel passaggio.

A nostro giudizio non tanto lontano, perché lo spartiacque a cui guardano tutti è l’elezione del successore di Mattarella. Concluso quel passaggio, non ci saranno remore ad andare ad elezioni anticipate. Soprattutto se, come appare probabile, al Quirinale si destinasse lo stesso Draghi e di conseguenza la fine del suo governo fosse obbligata. Difficile immaginare che si trovi un altro personaggio in grado di riportare tutti alla grande coalizione, a meno che ci troviamo in circostanze catastrofiche, ma nessuno se lo augura né ci sono ragioni per immaginarlo. Dunque paradossalmente a tutti, destra e sinistra, converrà incoronare Draghi alla Suprema Magistratura per andare all’agognato confronto elettorale.

Letta ha detto di non accettare l’idea che quello scontro veda fatalmente vincente la destra ed ha ragione, perché in questi lunghi mesi che ci separano da quel momento cambieranno l’Italia, l’Europa e il mondo. Il nuovo segretario del PD ha la cultura e le competenze per capirlo bene e dunque prevede che ci sarà una battaglia aperta.

Ad oggi afferma di volerci arrivare con lo schema con cui i suoi maestri, Andreatta e Prodi, affrontarono il passaggio del sistema italiano che doveva uscire dal terremoto di Tangentopoli: il superamento degli steccati ormai non più storici fra i partiti del riformismo italiano e la creazione di una ampia coalizione fra loro. Ci sarebbe da chiedere a Letta perché pensi di avere migliore fortuna di quella che sorrise ai suoi maestri, che realizzarono più o meno quello che oggi viene chiamato “il campo largo”, ma solo per non concludere molto rispetto agli obiettivi che si erano fissati e vedere tramontare rapidamente i loro governi travolti dalle beghe interne di correnti e partitini.

Colpisce che i mezzi a cui si guarda per realizzare il proposito siano rimasti quelli di allora. Il primo, individuare un “grande nemico” contro cui fare blocco, è oggi un poco acciaccato: allora l’uomo nero era Berlusconi, oggi può essere Salvini, ma l’averci governato insieme indebolisce quella retorica (e infatti nel suo discorso Letta è stato cauto nel valutare il cambiamento della Lega).

Più importanti gli altri due. Uno è il mitico “programma”. Forse non si pensa più di farne un inutile volume come ai tempi dell’Unione di Prodi, ma resta il fatto che per mettere tutti d’accordo in quel modo bisogno fare molti sogni e poca realtà. Per dire: va bene che siamo tutti ambientalisti, ma poi sugli inceneritori cosa diciamo? Tutti per la tutela dei lavoratori, ma come la mettiamo con un mercato del lavoro corporativizzato e poco disponibile alla flessibilità che farebbe spazio ai non garantiti? Si può mettere intorno ad un tavolo da Elly Schlein a Calenda, come dice Bonaccini, ma farli convergere su scelte dirimenti sarà un’impresa.

Il secondo strumento è l’uso della legge elettorale. Facciamo un bel sistema maggioritario che obbliga a correre insieme e le spinte al battersi ciascuno per conto suo non diverrà possibile. E’ quello che piace tanto agli ingegneri politici, peccato che nella realtà di un sistema multipartitico (e per di più con partiti suddivisi in correnti) significhi doversi spartire le candidature, dove tutti sono forti, perché se ne metti fuori uno il rischio è che ti manchi qual pugno di voti che ti fa vincere sulla coalizione avversaria.

Anche qui sappiamo come è andata a finire. Letta è un uomo intelligente e preparato e queste cose le sa benissimo. Si può capire che quando devi assumere il comando eviti di pestare i piedi di quelli che ti servono (perché stare zitti sulle stupidaggini grilline tipo giustizialismo e prescrizione questo significa), ma devi anche far capire come pensi di sciogliere i nodi. Un po’ di tempo si può aspettare, ma non troppo.


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