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Beppe Grillo si mette a fare l’esperto di politica estera e contraddice la linea atlantista di Luigi di Di Maio e di Giuseppe Conte. Significa qualcosa? Semplicemente che il fondatore cerca di salvaguardare la natura di “partito pigliatutto” propria di M5S. E’ la vecchia storia dei partiti di lotta e di governo, progressisti e conservatori al tempo stesso: tutti coloro che hanno studiato la vicenda dei grandi partiti politici la conoscono benissimo.

Il termine partito pigliatutto fu inventato dal politologo tedesco Otto Kirchheimer nel secondo dopoguerra per spiegare il successo della CDU contro l’SPD: mentre quest’ultimo voleva essere all’epoca ancora un partito “di classe”, i cristianodemocratici miravano ad offrire spazio al loro interno ad una pluralità di componenti. Erano un catch-all-party, consapevole che la società moderna non conosce gli schematismi binari della sociologia ottocentesca, ma si presenta come un aggregato di molteplici componenti, ciascuna con le sue richieste e la sua fisionomia. Un partito che vuole avere successo elettorale deve sforzarsi di offrirsi a ciascuna come strumento per ottenere gli obiettivi che questa si propone.

In teoria ciò non entrava in conflitto con l’esistenza di una ideologia unificante, perché si supponeva che quella ideologia potesse contemplare la promozione di molte diverse istanze. Anzi, nelle formulazioni più ardite, l’ideologia avrebbe potuto mettere sullo stesso piano realtà differenti: qualcuno ricorderà la famosa formula dei “lavoratori del braccio e della mente” che doveva trasformare i partiti “di classe” della sinistra in “partiti di popolo”.

Nella cosiddetta società liquida di oggi il problema non è neppure più quello dell’interclassismo o della composizione sotto un unico tetto di interessi che potrebbero essere contrapposti. Semmai è quello di creare lo spazio per usare una certa ideologia in base alla quale si era costruito il successo per operazioni che con essa avrebbero scarsa possibilità di convivere.

Non che anche questo sia un fenomeno nuovo. Tutta la storia dei partiti di sinistra è ricca di esempi in cui si è lavorato per contemperare la sopravvivenza di dogmi massimalisti con la pratica di politiche riformiste orientate ad un sano realismo. Non è solo storia italiana, perché ritroviamo i fenomeni nel laburismo inglese, nella socialdemocrazia tedesca, tanto per fare due esempi di peso. Lo stesso accade nei partiti conservatori degni di questo nome e nei momenti alti della loro storia: il conservatorismo britannico ha avuto inclinazioni di progressismo sociale, il gaullismo francese ha unito tendenze di destra e tendenze di sinistra. Ma l’esempio forse più chiaro potrebbe essere la Democrazia Cristiana italiana, che a lungo aveva dovuto far convivere una politica di tipo laico riformista (o conservatore, a seconda dei periodi) con il non-rigetto di componenti clericali che continuavano a sostenere la necessità di imporre i “valori cattolici”.

Siamo dunque all’eterna constatazione che non c’è nulla di nuovo sotto il sole della politica e dei partiti? Non è proprio così semplice. Intanto oggi in molti casi la convivenza sotto lo stesso tetto di visioni contrastanti non avviene più come una volta col presupposto che tutti stanno in realtà facendo la stessa cosa. L’invenzione della “sinistra plurale”, nata originariamente in Francia, non assomiglia al vecchio ossimoro per cui due prospettive contrastanti in realtà sono due facce della stessa medaglia e dunque sono guidate da un unico centro decisionale. Al contrario diventa lo strumento per trasformare i partiti in confederazioni di componenti diverse, che si governano ciascuna in autonomia e cooperano solo perché quella collaborazione dà loro la forza di guadagnare per sé un pezzo delle “spoglie” che la politica può mettere a disposizione.

In altri casi torna invece in campo la mitica “doppiezza” (invenzione del PCI all’epoca di Togliatti): la purezza ideologica delle prime fasi si mantiene e anzi viene apertamente richiamata di continuo, ma poi si è costretti ad adattarsi alle circostanze, ma solo apparentemente, perché in realtà si lavora sempre per raggiungere in futuro l’obiettivo massimo.

Ora i partiti più significativi sembrano muoversi in queste due ottiche. Nel PD c’è quantomeno attrazione per il mito della “sinistra plurale” che sembra offrirgli la possibilità di costruire il “blocco politico” capace di vincere alle elezioni. I Cinque Stelle e la Lega, o meglio alcuni dei rispettivi vertici, sembrano più inclini alla doppiezza. Grillo non a caso ha preso a rilanciare i vecchi mantra identitari (no al doppio mandato, siamo antiatlantici, anti capitalisti, ecc.) nel momento stesso in cui promuove l’avvento come leader di un personaggio come Conte che è prodotto da un contesto assai lontano dal “grillismo” (poi Parigi val bene una messa: le conversioni di un certo genere non sono una novità). Salvini trova modo di schierarsi con la demagogia del piantiamola con le chiusure per il Covid e al tempo stesso di inneggiare a Draghi come fedele esecutore dei suoi suggerimenti perché fa l’esatto contrario.

Ciò che tutti i partiti dovrebbero però ricordare è che il piccolo mondo antico dei partiti pigliatutto così come quello della doppiezza si basava su società in cui le appartenenze politiche erano sostanzialmente fisse, ciascuno stava dentro un suo segmento che lo portava, salvo eccezioni, a non potersi staccare da esso. Adesso tutto è mobile, nessun punto di riferimento è indiscutibile, per cui una comunicazione spregiudicata non facilita la raccolta di larghe adesioni, ma incentiva l’abbandono di quei partiti che appaiano più di tutto confusi.


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