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Il presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi

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Il coro “riaprite, riaprite” – con annesse piazze ruggenti – sta aumentando i decibel fino al parossismo. Esattamente come accadeva con il gemello “chiudete, chiudete” nei giorni tristissimi e spaventosi delle bare traslate sui mezzi militari. Questo perché agli italiani, è risaputo, la mediazione – figlia della compostezza e della lungimiranza, sublime frutto dell’azione politica – non piace: infatti è sempre bollata come al ribasso. Al rialzo non esiste, è solo mitologia.

Di conseguenza (ma senza alcuna sorpresa) il clangore dello scontro polemico sulla “svolta” o “cambio di passo” che dir si voglia, assieme a quello sulle cinquecentomila vaccinazioni al giorno che non arrivano perché mancano le dosi (vero o falso?) funziona benissimo come polverone per nascondere il vero braccio di ferro che sta prendendo forma e che minaccia di diventare pura dinamite dentro la strana maggioranza di larghe intese: il Recovery plan.

Com’è noto, il governo lo deve presentare a Bruxelles entro fine mese e alcuni giorni prima il presidente del Consiglio, Mario Draghi, lo illustrerà doverosamente in Parlamento. Tuttavia il nodo centrale è lungi dall’essere risolto: al contrario più passano le ore, più si aggroviglia. Nodo che può essere così definito: chi e come dovrà giudicare della bontà dei progetti presentati e a questi dare il via libera? In termini più brutali: chi deciderà dove e come spendere i quasi 200 miliardi che la Ue dovrebbe elargire?

Questione fondamentale e, com’è semplice intuire, di grande impatto politico. Infatti sporadiche nonché carsiche cronache raccontano che il dissidio è imperniato su una possibile cabina di regia (un’altra…) che il premier vorrebbe composta di soli tecnici: quelli scelti da lui nei dicasteri più importanti; mentre al contrario i partiti vorrebbero allargata ai loro rappresentanti.

Le motivazioni degli uni e degli altri sono fin troppo ovvie per soffermarvisi. Ciò non toglie che il problema è grosso e di per nulla facile soluzione. È evidente che il piano che realizza il Next generation Ue è la ciccia del mandato di Draghi. Il piano vaccinale, infatti, è fondamentale e preliminare a tutto e va realizzato nel più breve tempo possibile. Altrimenti l’Italia va a gambe all’aria. Tuttavia è altrettanto evidente che non è questo il campo elettivo dell’azione e della capacità dell’ex presidente Bce. Che invece può dare il meglio di sé, dispiegare nel modo più esteso e costruttivo la sua leadership, capitalizzare al massimo la riconosciuta autorevolezza ed esperienza proprio nella realizzazione dell’intelaiatura su cui costruire la ripresa del Paese.  Volendo usare una metafora calcistica, finora il premier, pur non avendo quel phisique du rôle, ha dovuto giocare con indosso la maglia del centravanti di sfondamento. Sul Recovery, può assumere il ruolo che più gli è congeniale: quello di regista dotato di classe che illumina la squadra e diventa goleador.

Logico che in questa impresa Draghi voglia accanto a lui le persone e i ministri che ha scelto e che ritiene più adeguati a vincere la partita. Nessuna sorpresa, dunque, che immagini un sinedrio in cui siedano dal superministro Franco a Colao, da Cingolani a Giovannini. Unica concessione: Roberto Speranza, che guida un ministero apparentemente tecnico ma che con la pandemia è diventato centrale e ultra politico.

Altrettanto logico e giustificabile che, sul fronte opposto, partiti e movimenti che fanno parte della maggioranza storcano la bocca.

Prendiamo Salvini. Ogni due per tre spiega che lui appoggia SuperMario perché sulla ripartizione delle risorse europee è meglio sedersi al tavolo dei decisori che restarne fuori: capito Giorgia? E adesso che arriva il bello che fa, si scansa (sempre gergo calcistico, per i più raffinati)? E Enrico Letta, che in perfetta discontinuità con i predecessori al Nazareno, spiega che quello di Draghi “è il governo del Pd” e si è presentato a palazzo Chigi con un corposo dossier con le proposte Dem sul Recovery, che fa: sale in tribuna e resta a guardare? Per non parlare del M5S.Quel che sarà di Conte e della sua leadership si vedrà. Ma sicuramente il MoVimento e l’ex premier non rinunceranno a voler essere nel cerchio magico che decide sulle risorse: è la torta più cremosa e appetibile. Giù per li rami, il concetto vale per tutti gli altri partiti di governo, da Forza Italia a Cambiamo a Leu (o quel che ne resta) e perfino agli ex Costruttori seduti sulle loro macerie.

Dunque come se ne esce?  Draghi è difficile, diciamo pure impossibile, che accetti qualunque tipo di commissariamento. Letta e Salvini hanno appena fumato il calumet della pace assicurando di essere divisi su tutto tranne che sul sostegno all’esecutivo. Che è un modo elegante per dire che se si accollano un tale fardello è ben complicato che mollino con un sorriso di stabilire da che parte il peso deve poggiare e dove il giusto compenso per tali sforzi, finire.

Cosicché mentre il generale Figliuolo gira in lungo e in largo la penisola per distribuire quei milioni di vaccini che deve ingegnarsi giorno dopo giorno a reperire, il suo Commander in Chief deve disboscare il percorso nella giungla degli appetiti dei partiti. Stavolta le conferenze stampa o i vertici più o meno ristretti non basteranno. Dovrà usare il machete. Chissà quanto ne è consapevole.


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