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Il presidente del Consiglio Mario Draghi

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Dopo le rose, le spine. Questo forse ha pensato Draghi (ma se l’aspettava) quando dopo il successo personale al G7 e alla Nato è tornato a Roma e si è ritrovato sul tavolo molti dossier che continuano ad essere aperti e di difficile maneggiabilità.

Su quelli non riesce a contare su una volontà di cooperazione da parte di forze politiche troppo occupate ormai in una campagna elettorale per le amministrative che serve loro solo per piantare qua e là le bandierine della comunicazione.

Neppure su un dato banale come il prolungamento dello stato di emergenza si può affidarsi ad un poco di buon senso. Dopo un anno e mezzo in cui si è visto che è bene essere prudenti nel dichiarare superata una fase difficile, ci si sarebbe potuti aspettare il riconoscimento di due dati di fatto facilmente valutabili: nella attesa di vedere se davvero non ci sarà più bisogno di un quadro emergenziale e considerando che Draghi ha usato con molta cautela e parsimonia strumenti eccezionali (tipo i DPCM) non c’è ragione di privarsi di alcune “semplificazioni” che sono consentite dal mantenimento dello stato di emergenza (per esempio la prosecuzione di alcune strutture commissariali).

Che invece ci siano partiti che si buttano sull’impatto emotivo delle parole perché si sono spinti a proclamare la fine del rischio epidemico non depone a favore della salute del nostro contesto politico.

Purtroppo non tutto si riduce a questo problema, che contiamo verrà risolto agevolmente. Dossier come quelli sulla riforma della Giustizia o sul rinnovo dei vertici della Rai (per tacere di Ilva, Mps, Alitalia) sono momenti di contrasto politico che possono nuocere non poco alla credibilità di ciò che ci permettiamo di definire “il momento Draghi”.

Non pare che tutti i politici colgano la delicatezza del passaggio che si è determinato con il successo in questi giorni del collocamento del primo prestito europeo. Proviamo a spiegarlo.

La raccolta rapida sul mercato di 20 miliardi con una domanda sette volte maggiore delle disponibilità dimostra, come giustamente ha sottolineato von der Leyen, che c’è una grande fiducia nella UE, ma questa non è senza condizioni, né indefinita. Si tratta di prestiti ad interesse e se chi emette il debito dovesse incontrare difficoltà economiche le ricadute ci sarebbero.

Ora l’Italia è uno degli anelli meno forti della catena per ragioni note a tutti e se la sua condizione non preoccupa più così tanto è per la presenza di Draghi. Se essa venisse indebolita o peggio messa in questione da una ingovernabilità delle forze politiche presenti in parlamento, finirebbe per soffrirne l’impianto dei “bond” europei (le cui emissioni continueranno) ed è facile immaginare che i nostri partner non la prenderebbero sportivamente.

Dunque ora non solo la tenuta dell’attuale governo, ma la necessità che dimostri ancora i famosi “cambi di passo” che tanto hanno contribuito a mutare la percezione internazionale dell’Italia diventano indispensabili. Se sulla Giustizia, tema centrale per le raccomandazioni che raccogliamo dall’Europa in tema di riforme essenziali per il PNRR, si rimanesse bloccati per il convergere delle impuntature di alcune forze politiche e degli interessi di alcune corporazioni già l’immagine del nostro paese ne soffrirebbe non poco, perché conforteremmo le malevole interpretazioni dei nostri avversari che ci giudicano un paese incapace di uscire dagli stereotipi della “solita Italia”.

Il tema della Rai è magari meno percepito a livello internazionale, ma certamente concorre e non poco alla formazione degli stereotipi di cui abbiamo detto. Non si può andare avanti con una gestione che ritiene la maggiore industria culturale e informativa del paese come un territorio da spartire fra i partiti come supporto ai loro interessi (e spesso anche alle micro-lobby che hanno fatto il nido dentro di loro).

Non che questo non sia un andazzo che coinvolge tutti gli ambiti in cui può decidere “la politica” (con le critiche di chi è marginale nella spartizione, salvo a replicare quelle performance che rigetta non appena è in condizione di farlo), ma oggi nel caso specifico la situazione va oltre la ordinaria ripetizione di consolidati modelli.

L’esperienza traumatica della pandemia ha rivelato tutta l’importanza di gestire una comunicazione pubblica e di costruire un “comune sentire” per affrontare un passaggio molto difficile. Qualcuno dovrebbe ricordare quanto nel febbraio-maggio 2020 è stata importante la retorica largamente sostenuta e condivisa del “ne usciremo migliori” per superare il trauma del primo lock down, un patrimonio che si è subito disperso per lasciare il campo ad una fiera delle vanità nelle comunicazioni, ad una rincorsa al sensazionalismo quando non al cinico sfruttamento delle paure.

Oggi che dobbiamo affrontare il secondo tempo sulla via della nostra ripresa e resilienza un forte contributo nel campo della cultura e della comunicazione indirizzato al sostegno a quello “spirito pubblico” indispensabile in questo frangente è della massima importanza. La Rai è uno strumento rilevante sia per quel che può dare direttamente, sia per quel che può determinare imponendo degli standard a cui orientare tutto il settore radio-televisivo (anziché come accade ora rincorrere i modelli delle grandi emittenti “private”).

Ecco perché il dossier Rai è per Draghi e il suo governo una occasione per imporre un ulteriore cambio di passo, costringendo, si spera, i partiti a tenere il ritmo della sua visione.


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