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Alessandro Di Battista

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È arrivato ormai il momento di chiedersi di che pasta sia fatto il Movimento delle Stelle, quale sostanza ne governi effettivamente la superficie e, soprattutto, le profondità.

Ieri è stato un altro dei giorni dell’ira buia e rancorosa, rinchiusa nelle stanzette parlamentari, rimestata sulle chat furenti e furibonde per quello che viene ritenuto uno “schiaffo”, l’ennesimo, una “normalizzazione” draghiana che tutto schiaccia, una sconfessione deprimente di dieci anni di storia del M5S.

Le ricostruzioni di quanto accaduto, Grillo che “preme” sui suoi su richiesta di Draghi, la perdurante assenza di informazioni ai peones che valgono uno: tutto, nel malcontento dolente dei post-grillini oggi evoca la deflagrazione astrale, il buco nero che tutto attrae e annienta.

Uno stato di fatto che non rafforza certo il governo in carica, anche se era lecito attenderselo. In questo, all’accelerazione sulla questione giustizia pretesa dal premier Mario Draghi va dato senz’altro il merito di raschiare ancora un po’ più a fondo nell’ambiguità del Movimento, nei suoi travagli irrisolti, nella sua identità e trasformazione di genere che nessun ddl Zan potrà mai definire.

L’altra sera, in CdM, la palpabile indeterminatezza del Movimento, il suo stato “granuloso”, ha finito per esaurire la proverbiale pazienza dell’ex presidente Bce. Apparso, a detta di molti testimoni, “adirato”. A quel punto le sue parole, scandite con una metrica che non ammetteva controcanto, hanno messo un punto sull’inconsistente melina e per il raggiungimento dell’accordo.

La riforma Cartabia – ha scandito il premier – “va approvata così com’è. Mi appello al vostro senso di responsabilità, perché voglio una maggioranza compatta e responsabile. Chiedo lealtà, nessuno può pensare di tenersi le mani libere in Parlamento”.

Ma se gli astanti, per quanto fosse nelle loro possibilità (ricordiamo pure che uno vale uno), si erano impegnati, il problema restava fuori dalla sala di Palazzo Chigi. Un minuto dopo, ecco difatti Giuseppe Conte giocare il jolly nella sua personale scalata alla cloche dell’astronave.

Posizione divergente su tutta la linea, ribadita: “Non canterei vittoria, non sono sorridente sulla prescrizione, siamo tornati all’anomalia italiana…”. Attento a non tirare ancora la corda fino alle estreme conseguenze, l’ex premier teneva a sottolineare che “non è questione di Conte contro Draghi”, eppure “non credo che nessuno debba permettersi di dichiarare che si vuole fare un attacco al governo Draghi se semplicemente si vuole fare politica e invocare una legittima dialettica democratica che avverrà in Parlamento”.

Vale a dire: l’esatto contrario di quanto chiesto dal premier. Ma anche una posizione che rovescia ancora il tavolo all’interno del Movimento, dove fino a poco tempo fa per “governisti” si intendevano quelli aggrappati al carro di Conte e per “movimentisti” i fedeli a Beppe Grillo. Ormai da tempo la situazione è capovolta, l’Opa di Conte sul Movimento prevede una ricandidatura per tutti (nel suo statuto è sparito il tetto del doppio mandato) che prescinde dalle posizioni attuali di privilegio dei “governisti”, non a caso ieri finiti nel mirino dei peones: “I ministri dovranno spiegare”, scrivevano nelle chat i più facinorosi.

E non è un caso neppure che dal botto sulla giustizia Conte sembri aver ripreso vigore, al punto da usare di nuovo toni ultimativi nei confronti del Fondatore: “Se il progetto statutario che ho presentato insieme al progetto di partito sarà pienamente condiviso io ci sono, altrimenti no». La medesima irritazione pare nutrire Grillo, per le uscite strumentali dell’ex premier, considerato che mentre l’uno chiamava i suoi ministri per fargli dire di “sì”, l’altro brigava per fargli dire di “no”. Dall’intreccio della vicenda giustizia con i travagli interni ai Cinquestelle, si comprende bene perciò come l’accordo sulla Cartabia abbia in sé il virus di un compromesso debole, che rischia di non tenere qualora la sirena-Conte dovesse ripresentarsi durante il suo approdo in aula, il 23 luglio.

E se emerge, dal dipanarsi delle cose, una “normalizzazione” draghiana che non può certo far piacere alla base dei cinquestelle, si compie nel contempo il prodigio della sorprendente spregiudicatezza dell’”avvocato del popolo”, che non esita a cavalcare il tema giustizia per portare dalla sua parte il grosso del drappello che persiste in Parlamento come d’autunno sugli alberi le foglie.

Così che, se lo “strappo” tra Di Maio e il suo ex guardasigilli di fiducia, Alfonso Bonafede, papà del blocco della prescrizione era una delle conseguenze attese e tutto sommato meno drammatiche, l’imprevedibile consonanza tra Conte e Di Battista (che ieri ha bollato tutti i ministri 5s come “intimoriti, interessati, incapaci, pavidi e inadeguati, dovrebbero chiedere scusa agli elettori”) suonava come un campanello d’allarme. C’è tra i 5stelle chi chiede già l’uscita immediata dal governo e chi dà appuntamento alla Cartabia in aula, per affossarla sotto una coltre di emendamenti. Sarà Conte capace di tenere a bada le fiamme, dopo averci buttato sopra una tanica di kerosene?


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