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L'ex premier Giuseppe Conte

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La domanda secca è se quanto ha ottenuto Draghi l’altro ieri in Consiglio dei ministri sia una convergenza unanime su una proposta di riforma (come aveva chiesto) o una tregua momentanea in vista dell’avvio di una guerriglia parlamentare.

Farebbero inclinare per la seconda ipotesi non solo le esternazioni di Bonafede, incapace di realizzare che la sua riforma non stava in piedi, e neppure le intemerate via internet del pasdaran Di Battista, quanto piuttosto alcune dichiarazioni improvvide di Giuseppe Conte.

Viene da chiedersi a questo punto cosa abbia in mente l’ex premier. Far cadere il governo Draghi sarebbe un obiettivo non solo folle, ma praticamente impossibile da raggiungere. Non conta che siamo ormai di fatto in semestre bianco, anche se tecnicamente sino al 3 agosto lo scioglimento della legislatura potrebbe essere possibile (ma bisognerebbe bruciare tutti i tempi, il che richiede una concordia generalizzata che non c’è).

Conta piuttosto che far cadere Draghi significherebbe buttarsi in una avventura da brivido, con difficoltà, a dire poco, nell’avvio del PNRR (da Bruxelles ci farebbero arrivare egualmente gli anticipi previsti in presenza di una crisi di governo che non si saprebbe come va a finire?).

È presumibile che nessuno sia così folle da infilarsi nel tunnel di una crisi politica. E allora perché non si accetta il compromesso, più che generoso, con cui Draghi e Cartabia hanno offerto la possibilità ai Cinque Stelle di avere qualcosina da esibire?

Non è complicato rispondere, anche se le ragioni di questo comportamento sono molteplici. La prima è che Bonafede si è reso conto di non avere ottenuto alcuna vittoria. L’allungamento dei tempi per portare a termine i tre gradi dell’iter processuale anche su concussione e corruzione non sposta molto: da un lato la Cassazione oggi è già quasi sempre nei tempi previsti, e poi se si fissa un criterio generale, con il cambio di clima che c’è le corti tenderanno a cercare di adeguarsi di norma ai tempi normali previsti, soprattutto se riceveranno l’aiuto di strutture e personale. Tanto il nodo più pesante è nelle indagini preliminari dei PM e lì si è posto un altro freno.

Quel che si è ottenuto insomma non è una bandierina che può essere sventolata da Bonafede e soci, e siccome questa è l’unica cosa che interessa loro (il merito delle questioni è un optional) così non va bene. Aggiungiamoci che più funziona il modo di procedere di Draghi, più si rafforza l’ala cosiddetta governista dei Cinque Stelle (Di Maio, Fico & Friends) cosa che non piace a tutta una componente dei gruppi dirigenti legati al progetto di Conte.

Qui sta il secondo nodo del problema, cioè la posizione dell’ex premier. Che questi sia in difficoltà lo si sta vedendo. Certo è vero che Grillo non è riuscito a cancellarlo con un colpo di internet come ha fatto con altri, ma non perché Conte avesse a disposizione il largo seguito che voleva esibire come pronto a seguirlo nell’avventura di un suo nuovo partito. Tutti gli osservatori accreditati ci dicono che quando si è messo a valutare la portata delle sue truppe, l’ex avvocato del popolo ha dovuto constatare che erano piuttosto ridotte. Ammaestrato forse da come era finita quando lasciava che si sfoggiassero stuoli di responsabili pronti a consegnarli il suo terzo governo, questa volta si era mosso con maggiore cautela. Conveniva lavorare per tenere in piedi quella forza che c’era, con tutte le sue incognite ed ambiguità, tanto per l’immediato quanto per il futuro confronto elettorale quando verrà.

Tuttavia Conte ha bisogno di mostrare che la controparte con cui il governo deve trattare è lui, magari via Patuanelli, e non Di Maio (peraltro piuttosto abile a fare il pesce in barile quando gli serve). Ecco allora la scappatoia, infelice, di minacciare la guerriglia parlamentare al momento di andare nelle Aule con la riforma Cartabia. Qui i cosiddetti contiani pensano di poter sfruttare la forza numerica di M5S, ma sarebbero calcoli mal fatti. Innanzitutto se si apre un varco alla “perfettibilità” della riforma varata dal governo, c’è da attendersi l’ingresso in campo di altre componenti interessate a piantar bandierine (in parte già annunciate da FI e IV). In secondo luogo se M5S si sfila dalla solidarietà raggiunta in Consiglio dei Ministri, c’è un cambio di maggioranza che apre la via ad una verifica sulla tenuta del governo.

Sembra che Draghi l’abbia fatto presente durante il confronto in Consiglio, ma chissà se l’hanno capito dei politici un po’ convinti che non esistano regole e si possa fare di tutto. Forse dovrebbe comprenderlo Conte, ma anche in questo caso non abbiamo capito quanto egli abbia imparato bene le regole di un sistema politico-costituzionale. Ovviamente non sono più i vecchi tempi dei governi con primi ministri scelti un po’ alla buona: con chi come l’ex presidente della BCE ha passato anni a confrontarsi con i governatori delle banche centrali europee e i governi che li spalleggiavano non c’è gioco per dilettanti allo sbaraglio.

Ciò non significa sottovalutare la delicatezza del passaggio sulla giustizia, soprattutto dovendo affrontare un parlamento che sarà già in tensione per la vicenda del DDL Zan. La posta in gioco, essendo essa l’avvio e il successo del PNRR, è talmente alta che ci sarebbe da credere che nessuno sia così pazzo da metterla in forse per difendere eredità identitarie di assai dubbio valore.

Ma di questi tempi non si può essere sicuri di nulla.


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