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Giuseppe Conte

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Un sondaggio è un sondaggio. Non c’è bisogno di scomodare Gertrude Stein per sostenere che le rilevazioni statistiche sono eteree come i sogni e pesanti come le tendenze e i percorsi del cuore che rivelano.

Facciamola breve: il sondaggio elaborato da Demos, l’istituto fondato da Ilvo Diamanti e pubblicato su Repubblica qualche giorno fa, in base al quale gli elettori del Pd sarebbero tanto contenti se al Nazareno ci fosse Giuseppe Conte invece di Enrico Letta, è poco più di un calembour, uno Spritz estivo nel bicchiere colmo di ghiaccio che poi si rivela annacquato, dá alla testa e finisce che si perde l’equilibrio. Al massimo, il frutto di una tamburellante e fintamente masochistica campagna d’opinione portata avanti dal duo Zinga-Bettini, col risultato che a forza di dire che l’ex avvocato del popolo era il fortissimo punto di riferimento dei progressisti, alla fine i piddini che votano senza se e senza ma ci hanno creduto. E riversato il loro convincimento nel contenitore demoscopico che magari ha fatto storcere un po’ la bocca a Letta, ma insomma non è una cosa seria.

Sicuro? Beh, in effetti grattando la vernice sui muri Democrat il giudizio viene confermato. Ma con qualche addentellato più che interessante. Vale per esempio la considerazione di Stefano Ceccanti, costituzionalista, uno che le cose interne al Pd le conosce bene.

“È fisiologico – spiega – che avendo sostenuto con enfasi un governo guidato da Giuseppe Conte, il giudizio dei dirigenti trovi rispecchiamento negli elettori. È tuttavia altrettanto evidente che man mano che cresce la consapevolezza della maggiore positività del governo Draghi, quel dato sia destinato a scendere”. Ahia. Le parole di Ceccanti sono oggettive, però fanno l’effetto di quando mastichi il gheriglio di una noce e un pezzetto di buccia ti finisce sotto i denti. Sicuro che sia solo l’effetto alone dei tanti osanna tributati al premier con pochette? E sicuro che il Pd con Letta segretario sia uscito dall’ubriacatura coltivata sotto il pino nero e l’abete greco di Vulturura Appula?

Qualche dubbio è legittimo. Per esempio quello per cui la costituency del maggior partito di sinistra italiano sia mutata in profondità e in maniera strutturale. Per cui, esclusi i giovani e gli arrabbiati, molti dei quali finiti nel M5S col solo biglietto di andata, siano rimasti in trincea i militanti di più antico stampo, ai quali la souplesse e i ghirigori di Conte piacciono di più e paiono più agreable dei pugni stretti e la mascella indurita del professore di SciencePo.

Insomma sono rimasti i vecchi democristiani e i centristi mentre i “sinistri” hanno fatto come i ragazzi appena laureati: hanno riempito la valigia e sono emigrati verso altri, e lontani, lidi. Riprova indiretta è che il duello si sviluppi tra due ex prototipi Dc: uno proveniente dalla scuola dei duri e puri di Beniamino Andreatta e l’altro erede delle felpatezze sornione e velenose di un Giulio Andreotti unitamente alle capacità di rivalsa del Coniglio Mannaro, alias Arnaldo Forlani (peraltro, per chi scrive, un mito del moderatismo). Se è un indizio, ancorché virtuale, è bello pesante.

Ma non solo. Forse è e rimane forte nel corpaccione degli elettori e nella mente perennemente strategica di vari dirigenti del Pd, la sindrome del Papa straniero, la voglia cioè di adescare figure anche lontane dalla tradizione della sinistra identitaria ma tuttavia dotate di un appeal tale che nelle urne si rivela vincente. Valga per tutti il precedente di Romano Prodi, invitato ad entrare nella stanza dei bottoni del Centrosinistra a trazione dalemiana nella convinzione che sarebbe stato il valore aggiunto per prevalere nelle coscienze dei militanti e nelle pancia dei benpensanti. Com’è risaputo, l’esperimento riuscì, almeno fino ad un certo punto. Poi la maionese impazzì e Prodi finí per fondare una partito con l’obiettivo dichiarato di togliere voti proprio al Pd. Eterogenesi dei fini.

Tuttavia il Papa straniero continua a mietere adesioni. Magari però rovesciando il ragionamento di Ceccanti. Nel senso di immaginare che mentre Conte al dunque lo puoi controllare, SuperMario Draghi certamente no. Perciò è giusto nonché necessario considerare l’ex banchiere una parentesi e al contrario l’ex avvocato il futuro che avanza. Futuro sempre e comunque di governo, of course.

Può essere. Ma è un esercizio pericoloso, una camminata su un filo senza rete a centinaia di metri di altezza: una roba da funamboli più che da dirigenti politici. Il rischio è che alla fine il partito erede delle migliori tradizioni riformiste del Paese sia costretto a recitare sempre e comunque il ruolo di junior partner, anche indipendentemente dai voti raccolti. Per capirlo, basta leggere le interviste di Conte laddove l’ex premier spiega che la differenza tra il Pd e il “suo” MoVimento “è che noi siamo disponibili anche (il corsivo è del redattore) a battaglie contro tutti. Come abbiamo fatto sulla giustizia”. Il M5S portabandiera di valori col petto pronto ad appuntarsi le medaglie, e il Pd dietro a fare il lavoro sporco.

Un brivido corre nella schiena? Giusto. Però la legge Bonafede il Pd l’ha ingoiata senza battere ciglio, digerendo perfino il fine processo mai. Sulla riforma Cartabia, il segretario Letta ha appoggiato le modifiche volute da Conte, anche a costo di provocare la malmostosità di SuperMario. Per non parlare del taglio dei parlamentari, tenacemente inseguito dai grillini e dal Pd tenacemente osteggiato con tanto di voti contro, salvo poi ammainare la bandiera di fronte sull’alleanza di governo.

Se è questo l’andazzo che si profila, allora tanto vale mettere Conte sulla tolda di comando, e tutto diventa più chiaro. Vuoi vedere che allora i “sondaggiati” piddini hanno visto lungo – valgono anche i sorrisetti e gli applausi a Travaglio che Draghi non capisce niente – e dargli torto è davvero complicato?


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