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La politica italiana ha marciato nelle ultime settimane in tono minore, perché il dramma dell’Afghanistan ha assorbito l’attenzione principale dell’opinione pubblica.

Non si è fermato nulla, e presto si rimetterà tutto in moto, perché ormai manca più o meno un mese al grande appuntamento con le urne di ottobre e la fibrillazione nei partiti è molto alta.

 Vanno al voto 1162 comuni, due collegi parlamentari per le suppletive e la Calabria per le regionali. Difficile non considerarle un test, anche se prudentemente alcuni leader dichiarano che sarà bene non trarre troppe considerazioni generali. Conte per esempio ha già detto che è troppo presto per misurare l’impatto della sua nuova leadership sul consenso ai Cinque Stelle.

In termini generali quel che sembra di vedere è però una corsa scomposta a guadagnare quella che definiremmo la leadership dell’inquietudine. Spesso la politica ha reazioni in ritardo rispetto a quel che succede e forse anche oggi è così. Da un certo punto di vista infatti dovremmo considerarci in una situazione che apre alla speranza: non ci sono i temuti segni di un crollo dell’economia, anzi, eccezioni limitate a parte, stiamo andando molto meglio del previsto; in più sono arrivati i primi soldi per il PNRR e dunque ci potrebbe essere un ulteriore progresso.

Infine, e sarebbe bene non sottovalutare il fatto, il nostro paese grazie a Draghi si trova ad esercitare un ruolo internazionale di rilievo che ci viene riconosciuto anche dalla stampa estera. Non male, visto che la credibilità e affidabilità internazionale è un importante fattore a nostro vantaggio in un mondo in competizione per non dire in trasformazione.

I partiti invece fanno poco o nulla per sfruttare questi elementi positivi. Continuano a percepire incertezze nella pubblica opinione e preoccupazioni per il futuro. Che ci siano è indubbio, perché le incognite non mancano. Innanzitutto non sappiamo ancora se e come si evolverà verso una soluzione la crisi epidemica, mentre cresce lo spazio di agitazione che si lascia ad una frangia di irresponsabili che pensano di poter imporre le loro psicosi a tutto il paese.

È ovvio che non sono fenomeni che si possono facilmente mettere sotto controllo col pugno di ferro, ma il lasciarli prosperare genera smarrimento. I partiti non riescono a fare veramente fronte comune contro questa situazione, perché per troppi è ghiotto pescare voti anche in quegli ambienti, dove c’è di tutto: estrema destra, come cascami vari dell’antagonismo di sinistra (non solo estrema).

 Qualcuno, al solito, è più spregiudicato, tipo Salvini e la Meloni. Il più incredibile è il primo che cerca di tenere il piede in almeno due scarpe (fosse per lui anche in un numero maggiore). A parte le ambiguità sulle politiche di contenimento del virus Covid 19, il suo obiettivo è il ministro dell’interno Lamorgese rea dapprima di non avere impedito l’aumento indubbiamente sensibile del numero degli sbarchi di immigrati irregolari e poi di non fare abbastanza azione repressiva verso i rave party che infestano parti del paese. Sul secondo punto, a prescindere dal fatto che il sottosegretario agli interni con delega all’ordine pubblico è il leghista Molteni (che non risulta capace di protagonismo, né in grado di prendersi la responsabilità di dimettersi), non si vede perché il pugno di ferro invocato sui rave party non venga chiesto anche per le discoteche e per le manifestazioni che infrangono regolarmente le normative in vigore.

Sul primo punto siamo alla più classica richiesta di qualcosa di impossibile fatto passare per facilmente raggiungibile. Gli sbarchi di immigrati, che adesso arrivano oltre che dalla Libia da una Tunisia che non è capace di far nulla per impedire il traffico di esseri umani, sono un fenomeno che non ha possibilità di essere fermato: impossibile “respingere” le barche e i barchini che arrivano a meno di non condannare i loro passeggeri a restare in balia del mare; impossibile rimpatriare i disperati che arrivano, che spesso non hanno documenti di identificazione certa e che i paesi di provenienza si rifiutano di riconoscere e di avere indietro.

Siamo alla pura demagogia, ma la contrapposizione ad essa è più o meno dello stesso genere letterario. Denunciare la beceraggine di Salvini non fa fare alcun passo avanti, se non si riesce a distogliere da essa l’attenzione del pubblico impegnandola su temi di maggiore spessore. È triste constatare che non sembrano esserci partiti in grado di farlo. Nel centrodestra FI si rifugia nella litania del partito liberale e cristiano, uno degli slogan meno convincenti visto che la sua credibilità sull’uno e sull’altro versante è piuttosto bassa. Il PD non riesce ad esprimere una linea, perché è bloccato dalla necessità di tenere malamente insieme una alleanza non solo variopinta, ma rissosa.

La scelta di Letta di presentarsi a Siena con un simbolo che non contiene alcun rinvio né al PD, né ad altri partiti che lo sostengono, non è un omaggio come dice ad una “coalizione larga”, ma una modesta furbata per non far vedere appaiati i simboli di IV e M5S che entrambi lo sostengono ma si disprezzano reciprocamente, e per non mischiarci il PD che non sa ancora se continuerà a tenersi in contatto con entrambi. Anche questo è un segnale, poco brillante, di come si voglia mantenere la leadership di una inquietudine, in questo caso quella di un elettorato in cui si vorrebbero tenere insieme le tradizioni del riformismo italiano con quelle del massimalismo e dell’utopismo da cui fa fatica a distaccarsi un antico retaggio che vorrebbe continuare ad intitolarsi ad una certa tradizione della sinistra.

(da Mente Politica)


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