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Matteo Salvini

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Poco di governo, molto di lotta: però persa. Come segnalato da più analisti, il via libera del Consiglio dei ministri al decreto che rende obbligatorio il green pass per tutti i lavoratori segna l’ennesimo dietrofront di Matteo Salvini impostogli dal premier. L’uno-due sferrato dalla coppia Giorgetti (“Governare significa assumersi delle responsabilità”) e Draghi (“Giusto prendere misure anche sfidando l’impopolarità”) hanno messo con le spalle al muro il leader del Carroccio, costretto a scontare anche l’irritazione dei suoi presidenti di Regione.

Salvini ha commesso un errore ed esce sconfitto, non c’è dubbio. Non è interesse di SuperMario umiliarlo e infatti se ne guarda bene. Tuttavia l’ultimo, in ordine di tempo, capitolo di una strategia costellata da un passo avanti e due indietro merita un surplus di riflessione. È evidente che Salvini sconta la difficoltà di essere frontman di uno schieramento potenzialmente maggioritario ma altrettanto profondamente spaccato, con una parte che appoggia Draghi e l’altra che lo contesta. Una contraddizione che a sinistra non c’è visto che, almeno formalmente, Pd e il M5S di rito contiano viaggiano sullo stesso binario di maggioranza. Puntando ad interpretare contemporaneamente ambedue i ruoli, l’ex ministro degli Interni finisce per fare male e a non essere convincente in entrambi, con inevitabili contraccolpi sul fronte dei consensi.

Dove conduce tutto questo? Per ora, anche se con cifre non unanimemente condivise dai sondaggisti, ad una palpabile soddisfazione del centrosinistra che vede rinascere le sue ambizioni di vittoria elettorale anche in virtù delle ottime prospettive per il voto di inizio ottobre sui sindaci; e ad una crescente confusione nel centrodestra che tuttavia fa spallucce convinto di poter comunque prevalere nel consenso popolare.

Due mezze mele che in forme fortemente ambigue segnalano il vero problema italiano. Ossia il fatto che nessuna di quelle metà è sufficientemente coesa e in grado di governare il Paese in uno dei passaggi più difficili ma al contempo con maggiori prospettive positive degli ultimi due decenni e mezzo. Il fatto che Mario Draghi poggi su una coalizione di cosiddette grandi intese non è un caso bensì l’obbligatorio risvolto dell’emergenza: non si può affrontare l’ultimo (speriamo) miglio della pandemia dividendosi sulle misure da adottare; come pure non è possibile radicare il Pnrr se non c’è condivisione sui passi da compiere e pure alla svelta. Proprio le vicende delle ultime settimane rappresentano la dimostrazione palmare che lo schema per cui SuperMario sta nell’Olimpo dei suoi uffici e definisce l’azione di governo in stretto contatto con i ministri tecnici, mentre sulla terra, su quelle stesse misure, i partiti si scontrano o addirittura parlano d’altro buttando la palla in tribuna, non funziona. Perché rallenta la marcia dell’esecutivo e infiacchisce le decisioni prese o da prendere.

Tuttavia nessuno provoca la crisi non solo perché sarebbe irresponsabile e masochistico mettere a repentaglio l’arrivo delle risorse Ue, ma anche perché alle strambe ma larghe intese non c’è alternativa. Per ora sicuramente, e non è detto che non sia così anche in futuro.

Il centrodestra spaccato e perdente nelle amministrative, infatti, mette a repentaglio la possibilità che possa reggere l’urto dei bisogni dell’Italia una volta chiuse le urne politiche. Un solo esempio. Ursula von der Leyen ha richiamato nel suo discorso sull’Unione la necessità di trovare intese per evitare il trauma di un rientro in vigore del Fiscal compact all’inizio del 2023. Sottolineando altresì l’urgenza di una forza militare comune. Salvini e Meloni, con l’aggiunta di Forza Italia e dei centristi di Coraggio Italia, come potrebbero rispondere unitariamente a così corpose sollecitazioni?

Non molto meglio vano le cose sul fronte opposto. I partiti di Letta (assai) e di Conte (più tiepidamente e ultimamente) si proclamano europeisti ma i Cinquestelle non si capisce bene cosa saranno dopo le elezioni e alcuni tra i “pensatori” più influenti del Nazareno, tipo Goffredo Bettini, immaginano legami elettorali che non sarebbe facile trasfondere in unitarietà di direzione. E comunque partendo da una prospettiva di opposizione: la vittoria, indipendentemente dalla volatilità dei sondaggi, risulterebbe una sorpresa. Ma sarebbe possibile ad urne chiuse riproporre l’unità nazionale dopo le bordate sparate da entrambi i fronti?

Le realtà è che le due mezze mele da sole non ce la fanno: sono ambedue unfit sotto il profilo di strategie comuni e feeling unitari. Non basta. Il vero paradosso è che l’unico collante possibile, il solo vessillifero di una capacità d’azione dentro e fuori i confini nazionali è Mario Draghi. Senza di lui, entrambi i possibili schieramenti si sgonfiano come soufflé andati a male. Del resto, Draghi non intende governare avendo mezzo Paese contro: sarebbe impossibile oltre che sbagliato. Al dunque entrambi gli schieramenti non sanno come maneggiare il Re sulla scacchiera, dove posizionarlo per difenderlo al meglio oppure se lasciarlo andare sulle caselle in attesa che qualcuno lo faccia secco con lo scacco matto. Sia centrodestra che centrosinistra non possono fare a meno del presidente del Consiglio.

Promuoverlo sul Colle potrebbe essere la via d’uscita che limita i danni: non a caso Salvini e Bettini parlano il medesimo linguaggio. Ma poi rimane il buco nero della governabilità. Allora bisogna lasciare SuperMario a palazzo Chigi. Però con la stessa maggioranza e un presidente della Repubblica in linea e di supporto al premier. Ma le due mezze mele sono in grado di trovarlo?


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