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The Jackal

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Nel 2004, Ciro era uno dei ragazzi di Amici di Maria De Filippi, in gara come ballerino. Non passa le selezioni per le puntate serali e deve tornarsene a casa, a Melito di Napoli. Il sogno? Spezzato. La delusione? Tanta, neanche a dirlo: «Ballavo dall’età di undici anni, avevo preso lezioni anche da Enzo Paolo Turchi e Carmen Russo. Non era quella la mia strada, ma ci misi un po’ a capirlo», dice.

In realtà, il futuro aveva in serbo per lui, qualcosa di più. Oggi, Ciro Priello, 33 anni, è una delle star di The Jackal, (gli sciacalli), il gruppo di videomakers napoletani che ha conquistato youtube con video da milioni di visualizzazioni: Gay Ingenui, le Vrenzole, Gli effetti di Gomorra sulla gente, le parodie di trailer di Don Matteo e Iron Man e poi le web serie, come Lost in Google. Non solo: i The Jackal, storyteller capaci di affrontare temi sociali come la disoccupazione giovanile, il razzismo, il senso di smarrimento nelle nuove tecnologie, le difficoltà dei rapporti di coppia, con umorismo fulminante e un linguaggio sperimentale, sono sbarcati anche al cinema nel 2017 con il film fantascientifico, Addio fottuti musi verdi, ben accolto al botteghino. Ciro, del team formato da Francesco Ebbasta, Fabio Balsamo, Simone Ruzzo e Alfredo Felco a cui si aggiungono di volta in volta, altri componenti e personaggi famosi entusiasti di lavorare con loro, è uno dei rappresentanti più amati, come interprete dei video. 

Da ballerino professionista jazz e hip hop, a attore dei The Jackal: Ciro, come è andata esattamente?

«È vero, fino all’età di 22 anni ho lavorato come ballerino professionista. Amavo ballare e pensavo che quella fosse la mia strada, ma c’era un’altra passione che avevo dentro fin da bambino e che condividevo con un paio di amici fraterni, Francesco e Simone, quella per i video. Tutto iniziò alla scuola media quando arrivò un professore, che rimarrà sempre nel mio cuore e che è ancora un nostro riferimento, Demetrio Salvi. Lui coinvolse tutta la classe in un laboratorio pomeridiano di regia e sceneggiatura. Era un modo per accumulare crediti, si iscrissero tutti. Io, e Simone, compagni di scuola fin dall’asilo e Francesco, in classe con noi alle medie, la prendemmo molto sul serio. Quando il prof ci assegnava il compito di realizzare le inquadrature, noi ci sforzavamo di andare oltre, confezionavamo dei veri e propri corti; ricordo di aver riutilizzato tutte le cassette con i filmini di famiglia, i compleanni, i saggi di mia sorella, tutti cancellati. Il professor Salvi ci permetteva di proiettare a scuola i nostri lavori: ecco, l’aula magna della Sibilla Aleramo di Napoli, è stata il nostro primo Youtube».

Quindi, The Jackal, è nato ancora prima dei social?

«Sì, mio padre, visto il mio entusiasmo, mi comprò la videocamera, pagandola un milione e mezzo di lire: praticamente un mese stipendio, per lui che lavorava nella polizia municipale. Poi, al liceo, io fui bocciato al primo anno e mi iscrissi al tecnico industriale di Scampia. Non ero più nella stessa scuola di Francesco e Simone, ma il pomeriggio ci riunivamo sempre e comunque, per realizzare i nostri video e i nostri corti». 

I tuoi genitori ti appoggiavano?

«Erano preoccupati, un po’ tendevano a reprimere la mia passione nella speranza che trovassi un vero lavoro, ma io sono sempre andato contro quello che pensavano, non ho mai dato ascolto alle loro teorie. Noi, di fatto, stavamo inventando un vero lavoro, senza rendercene conto. E devo dire, che quando lo è diventato, un lavoro, i miei sono stati ultrafieri. Ma lo ammetto, ci sono stati periodi duri».

Parlami di questi momenti difficili.

«Posso dire di aver fatto la classica gavetta di cui raccontano tanti artisti. Dopo aver accantonato la danza, intorno ai 22 anni, iniziai a studiare recitazione con un corso organizzato dalla regione Campania, con maestri come Carlo Cerciello e Roberto Azzurro, e quindi lavoravo: con i video non guadagnavamo ancora niente, e quindi facevo l’agente di commercio: vendevo contratti telefonici porta porta».

Eri bravo, come venditore porta a porta?

«Ammetto che mi capitava di recitare qualche volta, senza mai prendere in giro nessuno. Ero abbastanza bravo, portavo i risultati, anche se non era per me. Poi ci fu un periodo, in cui dovetti staccare completamente dai The Jackal per fare l’agente di commercio a tempo pieno. Fu l’anno più brutto della mia vita, tornavo a casa e la sera piangevo nel letto, perché non era quello che volevo fare. Avevo 25 anni. Alla fine, non ce la facevo più a reprimermi così, ricordo che mi licenziai e senza un lavoro, decisi di abbracciare la causa The Jackal».

Ai tuoi genitori prese un colpo…

«Sì, ma avevo un carattere abbastanza forte da far capire che quello era il mio desiderio. Così nel 2005 fondammo la società The Jackal, ma entrammo in una fase un po’ strana, in cui non capivamo dove saremmo andati a parare, l’unica cosa che avevamo bene in mente, era che c’era tanto da lavorare. I video piacevano, avevamo tante visualizzazioni, le persone ci facevano i complimenti, ma ancora, ripeto, non era un vero lavoro. E i problemi reali c’erano, i soldi mancavano».

Dove prendevate i soldi?

«Io vivevo ancora con i miei e i video, sostanzialmente erano a costo zero, ma c’erano altre spese e dovevamo trovare il modo di arrangiarci. Una volta, non avevamo i soldi per pagare il mese di affitto dello studio di registrazione e a pochi giorni dalla scadenza, facemmo al volo un corso di montaggio della durata di un weekend. Con la quota degli iscritti, riuscimmo a pagare evitando di farci sloggiare. Tutto questo, prima che esplodesse il fenomeno The Jackal».

Quando sono cambiate le cose?

«Con la web serie Lost in Google, nel 2011. Era un progetto che andava forte, ma i costi di produzione, questa volta erano alti. Del resto, la nostra ossessione era quella di alzare il livello qualitativo dei video, uscire dall’esperienza amatoriale. Lost in Google raccontava a puntate di un ragazzo che si perde nel web, la serie era interattiva, nel senso che gli utenti con i loro commenti, contribuivano a costruire la trama delle puntate successive. A un certo punto, erano finiti i soldi, pensammo di far morire il protagonista. Poi, il miracolo: ci contattò per la prima volta un’azienda, Ciaopeople, produttrice della testata online Fanpage, proponendo di finanziarci con la loro pubblicità. Non ci potevamo credere… ci affrettammo a cambiare la trama di Lost in Google: Simone, il protagonista, moribondo in un letto, viene attaccato a una flebo che riporta scritto: Fanpage. “Che cos’è questa?”, chiede. “È uno sponsor, altrimenti non ce l’avresti fatta”, gli risponde un’amica al capezzale. Era il 2011 e da lì, ce l’abbiamo fatta anche noi. Del resto, i tempi erano cambiati».

Spiegami…

«Nel 2009 in Italia era ormai esploso Facebook e le aziende si sono rese conto che la pubblicità su Internet, raggiungeva un pubblico enorme con costi inferiori anche alla pubblicità su una rete locale: hanno cominciato a investire. E dopo un po’ si sono accorti di noi. Così abbiamo iniziato a monetizzare un lavoro di anni. Ciaopeople ci ha proposto di entrare nel loro gruppo e tutto cambiato: abbiamo cominciato ad alzare la qualità dei video, attirando maggiormente il pubblico e l’interesse dei brand. Insomma, The Jackal ha preso il volo».

Siete diventati ricchi?

Ciro ride imbarazzato, «Diciamo che stiamo sereni. Oggi siamo un’azienda con più di venti persone a contratto. Di certo, ci siamo lasciati alle spalle lo spauracchio della disoccupazione. Però, al contrario di quello che si può pensare, dietro ai nostri lavori c’è tanto impegno: per realizzare un video a settimana, ogni giorno con il team degli sceneggiatori, gettiamo tutte le idee sul tavolo, discutiamo. Poi passiamo alla realizzazione. Lavoriamo dalle nove alle sei del pomeriggio in ufficio, ma anche quando siamo fuori, la mente non stacca, del resto noi prendiamo spunto da quello che ci capita nella vita».

Tra di voi ci sono mai stati litigi?

«Ci conosciamo da bambini e non abbiamo mai discusso, neanche un giorno. Oggi ognuno di noi ha un ruolo definito nella realizzazione dei video, ma ci ascoltiamo molto. Tra di noi c’è sempre il rispetto per chi può avere un’idea diversa, del resto, la nostra forza è il gruppo».

Progetti?

«Stiamo pensando a delle serie lunghe, e vorremmo realizzare anche un nuovo film. Al momento, il mio pensiero, è prendere al volo un lastminute e portare mia figlia, che ha quasi tre anni, in vacanza al mare. Vediamo».

Lascereste mai il web per il cinema e la Tv?

«No. Ci piace spaziare tra più piattaforme e poi, sul web è bello il contatto diretto con il pubblico. Ecco, scoprire attraverso i commenti sul web di aver regalato anche solo per cinque minuti, il sorriso a una persona che se la stava passando davvero male, è la più grossa soddisfazione. E poi, grazie al web, non siamo stati costretti a emigrare, come tanti ragazzi del Sud». 


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