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Smart working

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50 anni fa, il 20 maggio del 1970, veniva approvato lo “statuto dei lavoratori”. Se già prima del lockdown la questione dei diritti e delle tutele sul lavoro costituiva un argomento essenziale all’interno del dibattito pubblico, con la pandemia è emerso ancora più chiaramente come per alcune modalità di lavoro non esista ancora una disciplina sufficientemente rigorosa. Il repentino cambiamento delle condizioni sociali e lavorative ha favorito in alcuni casi il ricorso al lavoro agile, provocando quindi un incremento del cosiddetto smart working.

Negli ultimi tempi il mondo produttivo si è reso conto delle potenzialità che questo metodo offre, così come del risparmio economico che riesce a garantire, ed è molto probabile che passata l’emergenza alcune aziende scelgano di continuare ad adottare forme di lavoro a distanza. Se è chiaro che la crisi sanitaria avrà un forte impatto sul mondo del lavoro, in quest’ultimo non tarderanno tuttavia a palesarsi le diverse incoerenze interne.

Lo smart working ha concesso infatti a coloro che operano in questa modalità il privilegio di essere poco esposti al pericolo del contagio, ma tuttavia non li ha resi immuni dai processi di svalutazione economica, precarizzazione o sfruttamento. Una delle categorie occupazionali più esposte alle fragilità delle infrastrutture digitali è ad esempio quella degli insegnanti, la cui situazione è stata resa ulteriormente complessa dalla smaterializzazione dei luoghi di lavoro e da orari spesso quasi raddoppiati al fine di garantire la continuità didattica. Del resto, traslare le attività produttive in casa pone una serie di problemi relativi agli spazi, all’ampiezza dei locali quanto alla coabitazione degli stessi, così come palesa la necessità di disporre di una connessione internet e di dispositivi idonei.

Se da un lato c’è l’esempio del personale didattico, dall’altro ci sono quei genitori che durante la pandemia si sono spesso trovati in condizioni difficoltose dettate dalla necessità di conciliare lavoro e cura dei figli. La difficoltà di separare tempi di lavoro e di vita, con un conseguente incremento delle ore lavorative, rende necessario istituire sistemi di tutela, come ad esempio un “diritto alla disconnessione” (ossia una fascia oraria di riposo fissa) che garantiscano una migliore ed ottimale situazione lavorativa. Con lo smart working è del resto possibile avere buoni risultati in termini controllo e produttività del personale – a costi contenuti –  e questo determina una situazione di forte incertezza qualora non ne vengano chiariti i limiti.

Se alcune aziende decidessero effettivamente di implementare lo smart working, sarebbe quindi più che necessario provvedere a maggiori tutele nei confronti dei lavoratori. Altre criticità rispetto al mondo del lavoro contemporaneo appaiono se si considerano diverse categorie sociali, quelle dei cosiddetti “invisibili”.

Durante l’emergenza sono effettivamente emerse differenze tra gli occupati dei diversi settori sia per quanto concerne le condizioni materiali e sociali di lavoro, sia per quanto riguarda l’esposizione al pericolo; tra i più a rischio non è rientrato solo il personale sociosanitario – su cui si è posta maggiormente l’attenzione nell’ultimo periodo – ma pure gli addetti alle vendite nei supermercati, i corrieri, gli operai delle diverse filiere essenziali, gli operatori ecologici e via discorrendo. Caso eclatante è stato quello dei riders, divenuti col tempo i principali protagonisti della gig economy.

La norma approvata alla fine del 2019 nota ormai come «decreto riders», è stata lessicalmente giustificata dalla sovraesposizione mediatica del lavoro attraverso piattaforme digitali e dal notevole impatto che  i riders metropolitani hanno avuto nel dibattito pubblico negli ultimi anni. Durante la pandemia, tra le strade spiccavano ciclisti muniti di vistosi pacchi colorati, che hanno continuato ad effettuare (salvo che in in alcune regioni) servizio di consegna. In una simile situazione emergenziale, questi lavoratori hanno sì beneficiato della copertura assicurativa obbligatoria contro infortuni e malattie professionali, ma hanno lamentato la noncuranza delle piattaforme che, nonostante il pericolo di contagio e la sovraesposizione dei fattorini, non hanno distribuito loro gli strumenti necessari per tutelarsi (gel e mascherine). In effetti, essendo assunti con contratti che li qualificano come lavoratori autonomi, i riders sarebbero di fatto tenuti a provvedere da sé a procurarsi i dispositivi di sicurezza individuali.

Tuttavia, le prestazioni che svolgono sono di fatto decise dalla piattaforma a cui fanno capo, instaurando così col datore di lavoro un rapporto ben diverso rispetto a quanto accade per il lavoro di tipo autonomo. In una simile situazione, si sono venute a creare le condizioni per cui per ottenere gli strumenti di tutela i riders hanno dovuto richiederli direttamente ad un giudice. Durante l’emergenza è emersa in modo netto la necessità di chiarire i limiti di una professione la cui riqualificazione dei rapporti di lavoro è avvenuta in sede giudiziale o ispettiva, ed appare tuttora eccessivamente instabile.

La crisi economica e sociale che ci troviamo ad affrontare espone dunque i lavoratori tutti alle conseguenze di un necessario ed urgente mutamento della struttura produttiva della nostra società; la differenza tra chi è stato impegnato in prima linea e chi ha continuato a svolgere le proprie mansioni da casa non dovrà pertanto essere il piano su cui articolare una nuova contrapposizione tra classi lavorative, quanto piuttosto l’elemento comune per rivendicare la centralità del lavoro.


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