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Willy Duarte

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Willy era un ragazzo di 21 anni ed è stato ucciso pochi giorni fa, massacrato di botte, a Colleferro.

A seguito dell’accaduto si è detto tanto circa la dinamica e le motivazioni che avrebbero spinto i suoi aggressori a commettere una simile brutalità. Molte figure di spicco dell’opinione pubblica, così come diverse testate giornalistiche, il cui compito ci si aspetterebbe essere quello di indirizzare i cittadini verso una più piena comprensione di un evento così violento, hanno tentato di trovare una spiegazione comprensibile e forse eccessivamente semplicistica dei fatti.

E così si è sentita dare la colpa all’MMA (le arti marziali praticate dagli aggressori), al carattere difficile di singole “mele marce”, alla gioventù allo sbaraglio ed altri poco stratificati perbenismi. Alle accuse di chi sosteneva che i ragazzi coinvolti nell’omicidio fossero vicini ad ambienti politici di ultradestra, si è risposto sottolineando come, a conti fatti, non si trattasse di giovani concretamente coinvolti in politica. Allo stesso modo si è negata la matrice razziale dell’omicidio, non essendoci state motivazioni esplicitamente xenofobe. La mancanza di dichiarati intenti ideologici sarebbe pertanto sufficiente ad escludere un’aggressione legata a fanatismo politico, cosicché sui giornali si è letto di un ragazzo morto in seguito ad un pestaggio.

Eppure Willy non è morto, è stato ucciso. Le successive dichiarazioni dei familiari dei suoi aguzzini, per i quali la vittima “era solo un immigrato”, non sono considerazioni neutrali, ma di colore politico e che vanno al di là della diretta vicinanza ad un simbolo di partito. La violenza contro i più deboli, la stigmatizzazione e la giustificazione implicita del prevaricare su chi è diverso o in minoranza, sono comportamenti che portano una componente fanatica e più o meno esplicitamente politicizzata, indipendentemente da intenti dichiarati.

Eppure si è è scelto di soffermarsi su altro, ad esempio sulla situazione delle periferie, facendo leva sul disagio giovanile che in queste si radica, scaricando le colpe di quanto accaduto su una generazione cresciuta all’interno di un sistema compromesso (e pur tuttavia esonerando il contesto sociale dalla colpa di aver abbandonato socialmente e culturalmente i suoi abitanti). Che determinate realtà siano luoghi di disagio è un fatto noto, ma sostenere che siano sufficienti a generare situazioni come quella che ha portato all’omicidio di Willy è quantomeno irrispettoso, oltre che irragionevole.

Non si sarebbe dovuto tanto sottolineare il contesto da cui provenivano i quattro aggressori, ma piuttosto incidere su come la violenza di cui si sono macchiati fosse conseguenza di un ormai introiettato linguaggio e una forma mentis discriminatoria. Parlare dell’accaduto sottostimando o omettendo l’elemento che concerne il colore della pelle della vittima, come se si trattasse di un dettaglio irrilevante ai fini della vicenda, significa voler dissimulare la sovrastruttura sociale che determina il verificarsi di simili atrocità.

La dinamica di fondo è invece esplicitamente colpevole di quello che è a tutti gli effetti un crimine razzista, che segue una precisa logica sistemica di cui in Italia ancora oggi si ha paura di parlare apertamente e che si sceglie consapevolmente di mistificare con la retorica del caso isolato. Alcuni cittadini sono percepiti come subalterni (per etnia, orientamento sessuale, genere, disabilità …) e questa alterità, che genera repressione, viene categoricamente negata, cercando di soffermarsi piuttosto su altre componenti, che in questo caso sono state le arti marziali o la realtà periferica in cui l’omicidio si è consumato.

Il razzismo viene riconosciuto solo a chi si dichiara apertamente razzista, così come il fascismo – che si relega ad un’epoca storica fortunatamente trascorsa – apparterrebbe unicamente ai nostalgici del regime. Nel nostro Paese non è bene essere razzisti, ma è legittimo affermare  “prima gli italiani”, assumendo l’atteggiamento di chi cerca di definire le proprie priorità, senza chiamare le cose col proprio nome o, ancor peggio, sostenendo la dinamicità del processo storico che ne avrebbe cancellato ogni traccia. Invece in Italia esiste ancora il fascismo, esiste il razzismo e esiste una rappresentanza politica che su questo, in modo non esplicito, fa consenso.

Volerlo negare anche quando accadono eventi come questo non è un atteggiamento che mira al superamento di una struttura discriminatoria che si dice – ma solo a parole – di voler abbattere. Si è scelto di non parlare della vittima, ma c’è anche chi ha scelto di farlo, sottolineando come si trattasse effettivamente di un ragazzo di origini capoverdiane, ma con cittadinanza italiana. Ci si domanda allora se la nostra commozione ed il nostro sgomento sarebbero stati i medesimi se si fosse trattato di un giovane appena giunto nel nostro Paese che, forse, non è poi un luogo così accogliente come si illude di essere da qualche giorno a questa parte.


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