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TRA LE tante ripercussioni della pandemia di Covid sul 2020, non possono che essere menzionate anche le chiusure prolungate delle scuole e i relativi disagi per studenti e insegnanti. Il problema riguarda soprattutto l’Italia, dove catenacci e lucchetti serrati sui cancelli sono stati una costante per gran parte dell’anno: in Campania, tanto per citare un caso eclatante, le scuole sono rimaste chiuse da inizio marzo ininterrottamente, se si escludono quelle due settimane di riapertura a cavallo tra settembre e ottobre.

Ed è oltremodo preoccupante che il record appartenga proprio alla Campania, una Regione ad alto tasso di dispersione scolastica, come hanno denunciato a più riprese le realtà sociali attive sul territorio.

Le prime chiusure al Nord

Eppure il primo colpo al comparto dell’istruzione il Covid lo aveva inferto a territori ubicati centinaia di chilometri più a nord. Era la fine di febbraio, il bilancio dei contagiati del misterioso virus cinese saliva di giorno in giorno tra Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: così, per far fronte all’epidemia, gli amministratori locali di queste tre Regioni si affrettavano a disporre la chiusura non solo di scuole e università, ma anche di manifestazioni e locali pubblici.

Si sperava che fossero misure episodiche, che si sarebbe trovato presto il modo di arginare i contagi. Ma tra la popolazione era già panico. Una nota del Viminale, in quelle ore, invitava i cittadini a non credere a un messaggio diffuso su WhatsApp in cui si annunciava la chiusura delle scuole in tutta Italia. Il Ministero dell’Interno la aveva bollata come una fake-news.

Il lockdown

Ma non è stata affatto una notizia falsa l’alta contagiosità del Covid. Ecco allora che il 4 marzo, con un Dpcm firmato dal presidente Conte, si disponeva la sospensione «in via prudenziale» delle attività didattiche e degli eventi, inizialmente soltanto fino al 15 marzo. Non sarebbero però bastati 11 giorni per sconfiggere il virus. E lockdown fu. Il 9 marzo un nuovo Dpcm prolungava la chiusura di tutte le scuole e università italiane fino al 3 aprile. La situazione era però ormai fin troppo chiara: di decreto in decreto, gli studenti non hanno più rivisto le loro aule fino alla fine dello scorso anno scolastico.

Caos Dad

La scuola italiana ha così iniziato a famigliarizzare con la didattica a distanza, conosciuta anche con l’acronimo Dad. Un vero e proprio pandemonio. L’istruzione da remoto ha fatto emergere non solo il divario digitale largamente presente in molte aree del Paese, ma ha anche dimostrato quanto l’istruzione in presenza sia necessaria per una formazione completa degli alunni, che contempli anche l’aspetto della socialità.

Come osservato da molti insegnanti poi, la scuola digitale acuisce le differenze di classe: non tutti gli studenti possono permettersi un pc personale e pochi minorenni possono avere una persona che stia con loro mentre seguono le lezioni online.

Le polemiche hanno attraversato l’estate, ma alla fine, nonostante le innumerevoli difficoltà, la speranza per il futuro dei giovani si è riaccesa. A settembre (quasi) tutti sono tornati sui banchi. Poi la recrudescenza del virus ha suggerito al governo un dietrofront: il 26 ottobre cancelli chiusi nelle scuole superiori come nelle università e di nuovo didattica a distanza. E ora? Manca poco alla fine delle vacanze natalizie, ma mentre scriviamo ancora non è ufficiale se e come riapriranno le scuole.

Agli studenti italiani non resta che far proprio il titolo di un film anni ‘90 incentrato proprio sulla scuola: «Io speriamo che me la cavo».


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