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Il prof. Domenico De Masi, il sociologo pioniere del telelavoro

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«Sveglia e caffè. Barba e bidet. Presto che perdo il tram. Se il cartellino non timbrerò…». Generazioni di italiani si sono identificati nell’affresco dell’impiegato alla Fantozzi, ottemperanti a un consuetudinario mattutino per raggiungere l’ufficio in tempo ed evitare la severa reprimenda del proprio “mega direttore galattico”. Presto però, questo spaccato di società potrebbe appartenere alla storia. La pandemia ha dato un’accelerazione allo smartworking: secondo il Ministero del Lavoro, sono 1,8 milioni gli italiani che lavorano lontano dall’ufficio, otto volte di più rispetto a febbraio. E sembra che la svolta non dispiaccia affatto. Un’indagine di Variazioni, società di consulenza specializzata in smartworking, stima che l’86% dei lavoratori vorrebbe proseguire la pratica del lavoro agile. Ma siamo sicuri che l’addio al vecchio paradigma dell’ufficio produca soltanto vantaggi? Lo abbiamo chiesto al prof. Domenico De Masi, il famoso sociologo del lavoro pioniere del telelavoro.

Professore, la stupisce che così tanti italiani gradiscano il telelavoro?

«No, assolutamente. I cosiddetti “lavoratori intellettuali” possono quasi tutti telelavorare, non vedo perché dovrebbero rinunciare a un’opportunità. Magari perché il telelavoro può scalfire l’equilibrio tra vita familiare e vita lavorativa. Non esistono più orari. È l’avvento della società industriale che ha separato la casa dal lavoro, ha costretto i lavoratori ad allontanarsi dalla famiglia per raggiungere la fabbrica. Il telelavoro, invece, ristabilisce questo equilibrio: chi lavora da casa può dedicarsi di più alla famiglia, basta sapersi organizzare anche con i tempi. Ma questo è solo uno dei vantaggi».

Quali sono gli altri?

«Si risparmia tempo per raggiungere l’ufficio, si evitano lo stress degli orari e del traffico, non si produce inquinamento e si rischia di meno per la propria incolumità: pensi che il 60% degli incidenti stradali coinvolge persone che vanno o tornano dal posto di lavoro».

Non si rischia di sacrificare il contatto umano?

«No, è il concetto di ufficio che logora il contatto umano, perché costringe a frequentare ogni giorno lo stesso luogo e le stesse persone. Lavorando da casa siamo liberi di scegliere il bar di fiducia e frequentare gli amici che abitano in zona. E poi c’è un paradosso, che in sociologia chiamiamo “la regola dei 15 metri”: si tende a scrivere ai colleghi, anche se vicini, anziché raggiungerli fisicamente. A questo punto tanto vale svolgere la stessa mansione restando a casa, senza l’incombenza di doversi spostare».

Negli anni 80 lei fondò la Sit (Società italiana del telelavoro), il progetto però non è mai decollato, nemmeno una decina d’anni dopo con internet. Perché?

«Perché i capi sono affetti da quella che chiamo la “sindrome di Clinton”: vogliono avere i dipendenti a portata di mano, così come Clinton voleva avere la stagista nella porta accanto».

Con l’avvento dei nativi digitali nel mondo del lavoro, lo smartworking supererà gli attuali ostacoli?

«Sarà una rivoluzione. Più avanzano gli anni, più diventa naturale l’utilizzo degli strumenti digitali, in ogni ambito, compreso quello lavorativo».

Alcune aziende, anche italiane, stanno progettando catene di montaggio con macchinari automatici. In un mondo del lavoro occupato dalle macchine che posto avrà l’uomo?

«Il processo è già avviato: oggi un’automobile media è prodotta solo per 1/7 dall’uomo, principalmente la progettazione, il resto del lavoro è svolto dalle macchine. La soluzione per non far sparire il contributo umano è ridurre l’orario di lavoro. Un esempio: in Germania si svolgono in media 1.400 ore di lavoro all’anno, in Italia 1.800. Poi ci chiediamo perché il nostro tasso di disoccupazione è così alto rispetto al loro».

Che impatto avrà il 5G sul mondo del lavoro?

«Come quello avuto dal 4G. La vera svolta è stato l’avvento del telefono senza fili e, in futuro, sarà l’intelligenza artificiale: molti mestieri cambieranno radicalmente».


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