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TECNICAMENTE si chiamano Neet, anche se l’ex ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, li definì con un termine, contestatissimo, ma più immediato: bamboccioni. E, in effetti, il richiamo al bambino che non vuole crescere, rintanato ad libitum nell’ambiente familiare, ben tratteggia le caratteristiche di questa particolare categoria sociale: non studiano, non lavorano, non intraprendono percorsi formativi finalizzati all’impiego. In Italia sono tantissimi. Secondo l’ultimo rapporto trimestrale della Commissione europea sull’occupazione e lo sviluppo sociale, nel nostro Paese i giovani inattivi (nella fascia di età compresa fra 15 e 24 anni) sono pari 20,7%, quasi il doppio che nel resto dell’Ue.

«In Italia, però, il fenomeno può arrivare sino ai 35 anni» ci spiega Paola Lausdei, psicologa del lavoro e delle organizzazioni. «Queste persone – aggiunge – restano bloccate in uno stato di inerzia, incapaci persino di assistere chi gli è più vicino, una nonna malata, un fratello più piccolo. Alla base ci sono diversi fattori, alcuni socio culturali, altri di matrice psicologica». I primi sono legati agli ambienti familiari, «poiché quasi sempre i Neet vengono fuori da nuclei nei quali non lavorano entrambi i genitori». I secondi, probabilmente, «derivano da fratture interiori, da una difficoltà nella percezione del come io sono e del come potrei essere che porta il ragazzo a perdersi completamente».

La pandemia sta facendo da amplificatore, ma non nel senso che potremmo immaginare. Non è, per capirsi, la crisi economica a generare nuovi Neet. «Il Covid, la mancanza di lavoro e di opportunità sono piuttosto utilizzate come scuse da queste persone – chiarisce la psicologa – perché favoriscono un processo di autorizzazione e giustificazione. Il ragionamento è: ‘Non posso uscire, quindi dove vado? Non posso cercare un lavoro come cameriere con i ristoranti chiusi’ e così via…». In sostanza «le misure adottate dal governo sono diventate, loro malgrado, una culla su cui il fenomeno si è adagiato».

Chi si impegna, al contrario, «se non si trova bene cerca un modo per realizzarsi e produrre, magari trasferendosi altrove». Insomma la scelta di abbandonare il nido, dipende soprattutto da fattori soggettivi. «Se hai questa spinta – prosegue – non la perdi. Viceversa chi è vacillante e non ha ben chiari i propri obbiettivi rischia di fermarsi. Anche perché le famiglie italiani sono accudenti, persino con i figli emancipati».

Altro discorso si può fare per chi, dopo le chiusure fisica delle scuole, ha abbandonato il percorso formativo intrapreso. «Molti ragazzi non erano pronti alla didattica a distanza – sottolinea Lausdei – e, nello stesso, tempo il corpo docente, quando è arrivato il Covid, non era sufficientemente formato per questa particolare modalità di insegnamento. In questa situazione il genitore dovrebbe fare un po’ da motivatore ma spesso, specie in determinate condizioni socio-culturali, ciò non avviene. Così si arriva alla dispersione scolastica».

Da un punto di vista sistemico pesa anche la specificità del mercato del lavoro italiano. «Qui da noi – dice – oltrepassata una certa età le possibilità trovare un impiego si riducono drasticamente, salvo per i profili altamente qualificati, destinati a posizioni prestigiose». Non è il caso dei Neet, ovviamente, la cui motivazione all’inattività potrebbe essere potenziata anche da misure assistenzialiste, come il reddito di cittadinanza. «Certo il messaggio di questi aiuti economici non aiuta – ammette la psicologa – e vale soprattutto per chi ha più di 29 anni. Non credo tuttavia che abbiano un ruolo determinante sul fenomeno dei Neet, se non in situazioni limite, nelle quali mancano le conoscenze sull’accesso a queste particolari forme di reddito. Tutt’altro che semplici da ottenere». Diverso è il ruolo giocato dai modelli proposti da media e web: dai reality agli influencer.

«La situazione è tragica – commenta Lausdei – oggi prevale la cultura dell’immagine, dell’apparire. Lasciare lo studio per cercare forme di facile successo, non lavorare e restare a livelli di semianalfabetismo fa fico, nonostante ciò possa avere implicazioni cognitive ed emotive devastanti. Il web ci bombarda di messaggi provenienti da persone vuote. Ma non bisogna dimenticare, anche in questo caso, le carenze delle famiglie: dalle 14enni accompagnate dai genitori a fare i provini per i reality a chi apre canali Youtube ai figli minorenni».


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