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Nicola Zingaretti, segretario dimissionario del Pd

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«LO STILLICIDIO non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da venti giorni si parli solo di poltrone e primarie”.

Parole piuttosto severe quelle con cui Nicola Zingaretti annuncia le sue dimissioni da segretario del Partito Democratico, il quale conta adesso al suo vertice l’alternarsi di ben otto diversi segretari in 14 anni (10, se si considera che Renzi e Martina sono stati eletti due volte). “Conte o elezioni” è stata in effetti l’unica linea d’azione sostenuta dalla sinistra durante la crisi di Governo, a supporto dell’accordo con il Movimento 5 Stelle, lo stesso che sarebbe dovuto essere un momentaneo asse politico, ma che è ben presto mutato in una effettiva alleanza.

La difesa ad oltranza di Giuseppe Conte è stata una condotta che tuttavia ha trovato pieno sostegno negli organismi dirigenti del partito, senza che vi fosse opposizione alcuna tra le fila di quelli che, all’interno dello stesso PD, si autoproclamano ancora adesso riformisti. Con la fine del Governo Conte, è conseguentemente venuta meno anche la coesione interna del PD; il neonato governo Draghi – che vede coinvolti tutti partiti ad esclusione di Fratelli d’Italia – ha definitivamente scongiurato il rischio che i dissensi interni al PD potessero portare a elezioni anticipate. Quello che oggi ci viene raccontato dalla stampa è pertanto l’ennesimo conflitto interno di un partito che sembra incapace di giungere ad una sintesi politica duratura, e che – pur pretendendo di essere maggioritario – non si è mai dimostrato in grado di definire una propria reale identità.

Il Partito è stato del resto indeciso sin dal principio, da sempre internamente caratterizzato da rancori politici e, probabilmente, personali. Se ai tempi di Matteo Renzi questi malumori venivano giustificati da una incompatibilità tra il progetto politico dell’ora leader di Italia Viva e la linea battuta dal Partito Democratico, l’arrivo di Nicola Zingaretti alla segreteria sembrava un cauto tentativo di riposizionare il PD verso una sinistra più vicina ai suoi ideali classici. Eppure, neppure l’ormai ex segretario sembra essere stato in grado di appianare le controversie interne di un partito che, pur volendo porsi come ultimo baluardo della sinistra, di quest’ultima conserva ad oggi principalmente l’instabilità.

E così mentre Nicola Zingaretti fa le valigie, Giuseppe Conte si prepara a prendere le redini del Movimento 5 stelle (M5s), offrendoci pure il bizzarro ritratto di di una forza politica che chiama come leader qualcuno che non è neanche iscritto a quello stesso partito che vorrebbe rappresentare. E che, tuttavia, può contare solo sul grande consenso dell’ex Premier, per restare a galla. Evidentemente, il partito di Grillo deve aver compreso che questa potrebbe essere l’unica possibilità di salvezza del Movimento, che pure paga le conseguenze del nuovo assetto politico nazionale, lo stesso che porta ora a chiedersi: che ne sarà del PD?

Non è ancora chiaro se ci stiamo preparando ad assistere effettivamente ad uno dei fallimenti più eloquenti della politica italiana, il sottinteso tramonto di un progetto che tuttavia ambiva a riunire le diverse esperienze del progressismo italiano. Il PD insegue ancora una visione politica che non riesce ad incarnare, esacerbando quel proverbiale “ma anche” di Walter Veltroni fino al più smodato trasformismo, che ci restituisce le ceneri di un partito smarrito nei suoi stessi e vagheggiati ideali.

Ora, di fronte ad uno scenario politico e sociale tanto duro, ormai dopo due anni di pandemia, chissà che quella che sembra essere a tutti gli effetti una sconfitta per la classe politica democratica degli ultimi dieci anni non corrisponda ad una reale opportunità per le nuove generazioni. Chissà che non sia il momento propizio per superare l’orizzonte temporale di una leadership – o presunta tale – agli sgoccioli, il cui percorso sembra tempestato di vacue promesse di cambiamento. Forse, piuttosto che rinnovare lo stantio, è giunto il momento di valorizzare il nuovo.


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