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Da che non si faceva che parlarne, oggi la retorica della “guerra comune” non sembra più attuale. Questa immagine, assai distorta, che raccontava il virus come un nemico contro il quale combattere in modo solidale, faceva appello alla condizione inedita e grave che opprimeva ciascun cittadino. Sebbene non tenesse conto delle profonde differenze sociali tra classi, questo ingenuo parallelismo poteva in ogni caso risultare comprensibile e, a suo modo, inizialmente sembrava riuscire a restituire il sentimento di una realtà sociale che aveva come unico aspetto realmente comune la volontà di sconfiggere la pandemia. Questo, tuttavia, era solo l’inizio.

C’è stata poi una fase, quando era ormai chiaro che la classe politica italiana risultava inadeguata nel rispondere alle reali necessità dei cittadini, in cui il divario tra bisogni di alcuni e urgenze di altri è diventato incolmabile; per tanti il “nemico” non poteva più essere la malattia, nel momento in cui salvaguardare la propria salute significava rinunciare a qualsivoglia possibilità economica.

Stare a casa voleva dire perdere il lavoro e a tanti sembrava che la propria sola libertà fosse scegliere di quale sciagura perire. La speranza di tornare alla normalità si è tramutata in una urgenza e la rabbia inascoltata di tanti è diventata inevitabilmente più forte del senso di una lotta che non era davvero comune, che chiaramente non vessava ciascuno in egual misura.

Allo stesso tempo, pure per quelli che avevano la fortuna di poterla sopportare meglio, una situazione transitoria ha iniziato a stabilizzarsi, un po’ per contingenza del caso e, in misura molto maggiore, per incapacità di trovare vie di fuga.

La bella Italia che all’inizio dello scorso anno si affacciava ai balconi per cantare ha perso progressivamente anche quella – stucchevole ma quantomeno autentica – piccola speranza condivisa. Un tempo ci si domandava se ne saremmo usciti migliori e la risposta sembra oggi essere sufficientemente fatalista. Lo scarto che vi era tra la situazione pre-pandemica e quei sofferti primi mesi del 2020 era fortissimo, ben identificabile e inedito.

Oggi nessuno sente più l’urgenza delle misure di contrasto e non c’è più – a dispetto del preoccupante aumento dei casi e delle varianti – lo stesso timore che era papabile agli inizi dello scorso anno. Il covid non è più un nemico, quanto piuttosto una sorta di coinquilino sgradito che non accenna a voler andare via. Le mezze misure adottate dal precedente Governo, i tentativi di “tornare alla normalità”, hanno piuttosto normalizzato uno scenario di sopravvivenza.

Difficile sarebbe infatti credere che si possa dire propriamente “vita” una situazione tanto alienante, nel progressivo abituarsi ad una quotidianità fatta di uscite finalizzate al consumo, orari di rientro da rispettare e zone colorate. Come antagonista collettivo si alternano un po’ per volta le varie fasce sociali, identificate come principale veicolo di contagio a fasi alterne (prima sono stati i runner, poi era la movida, i viaggiatori, poi gli anziani …). Ci odiamo vicendevolmente ad intervalli regolari, di tanto in tanto, mentre i giorni trascorrono tutti uguali e sterili.

Anche la crisi di Governo, verificatasi nel peggior momento possibile, per alcuni è stata vista come uno spartiacque, il simbolico termine di quello che ancora sembra un unico infinito anno, come se un cambio della guardia potesse anche significare un mutamento reale. Chiaramente, così non poteva essere e la storia è un processo, non un alternarsi di momenti chiusi ed incasellati nelle varie disgrazie. L’avvio della più grande campagna vaccinale del Mondo gioca certamente un ruolo da protagonista nell’uscita dalla crisi sanitaria, probabilmente l’unico realmente risolutivo.

La vicenda di AstraZeneca, la percezione della cura come veleno, è particolarmente grave anche perchè nuovamente segnala un divario tra istituzioni e cittadini che va al di là dei meri interessi della politica. Si ha sempre riserbo nell’approcciare a qualcosa di nuovo e sono mesi che nessuno si prende la briga di spiegare nulla; si ha paura di quel che non si conosce ed è da un bel po’ che conosciamo solo la malattia. Così, tanti sembrano preferire il rischio alla cura, perchè dell’uno si conoscono gli effetti, verso l’altra c’è diffidenza.

Eppure, del vaccino abbiamo bisogno, per poter mettere fine ad una realtà distorta ed a tante morti insensate. La fiducia verso le istituzioni e nel cambiamento non può mai essere cieca, ma deve trovare la propria determinatezza in una speranza che poggi su una reale consapevolezza. Nulla di quanto è accaduto, dal diffondersi del virus alla scoperta di un antidoto, è stato frutto di un mistico susseguirsi di casualità; gli ultimi anni sono il risultato delle nostre azioni, come lo è il senso di avvilimento e frustrazione che consegue ai nostri reiterati errori. Bisognerà capire se siano ancora riscattabilili.

Non capiterà che un giorno tutto questo finisca d’improvviso, sembra irrealistico supporte che ci si possa svegliare un mattino con una situazione sociosanitaria rinvigorita, dimenticandosi della pesantezza degli ultimi tempi.

Piuttosto, la normalizzazione proseguirà, la storia farà il suo corso portandosi dietro certamente le proprie vittorie ma anche i traumi di una fase che sarà per molto tempo il nostro peggior rimpianto.


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