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Massimo Allegri

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L’era bianconera di Massimiliano Allegri finirà domenica prossima a Marassi, con i 90 minuti di Sampdoria-Juventus. Dopo un quinquennio di vittorie l’addio si è consumato in poche ore. Venerdì alle 12.48 era arrivato l’annuncio ufficiale della fine del rapporto, sabato a pranzo la conferenza stampa e ieri sera il saluto ai tifosi all’Allianz Stadium. 
Nei 45 minuti di conferenza stampa un affettuoso Andrea Agnelli e un commosso Massimiliano Allegri hanno spiegato con toni concilianti che la società ha deciso di licenziare l’allenatore [2].
In realtà la storia è andata diversamente, come ricostruisce Emanuele Gamba: «Una decina di giorni fa Allegri, che ad aprile aveva deciso di restare per il sesto anno, ha cominciato a rendersi conto che il consenso del club si stava sgretolando. Dopo la sconfitta con l’Atletico, e le ondate di critiche che gli si erano abbattute addosso, nessuno aveva preso le sue parti. E dopo l’eliminazione con l’Ajax, con la figuraccia di una partita giocata pessimamente, il gelo gli è calato attorno. Nel giro di un paio di settimane, ha capito che gli equilibri della fiducia reciproca erano saltati. Ha preso ad annusare la voglia di novità che girava tra uffici e armadietti. E i due incontri con la dirigenza hanno confermato le sue sensazioni» [3].
Eppure la domanda rimane: perché la Juventus ha deciso di scaricare uno degli allenatori più vincenti della sua storia? «Era il momento giusto per farlo, tra persone intelligenti che capiscono il momento di chiudere, invece che trascinarsi avanti», ha spiegato Agnelli. Mentre il presidente diceva questo, sabato scorso nella sala stampa dello Juventus Stadium non era presente il vicepresidente Pavel Nedved, che in pubblico e in privato è stato l’uomo della società più ostile ad Allegri [4].
«Ha vinto tanti duelli, Massimiliano Allegri, in questi anni ruggenti alla guida della Juventus: con Bonucci, con Higuain, con Benatia e altri grossi calibri. Ma appena il tecnico ha alzato il tiro, puntando al cuore della società, ha perso quello con Pavel Nedved, vicepresidente e braccio destro di Andrea Agnelli» [3].
A dividere Allegri e Nedved non erano solo le strategie di mercato, ma più in generale la visione del calcio. Mario Sconcerti: «Quando Allegri si azzuffa con Adani sulla filosofia del gioco risponde in pratica a Nedved e Paratici, se non anche ad Agnelli. Il suo nervo scoperto era quello. Alla Juve oggi vincere non basta più, non porta valore al marchio. Serve lo spettacolo, comunque sia. Allegri è un po’ fermo al vecchio calcio, quello in cui basta vincere. Per fare soldi oggi devi essere un esempio nel mondo, altrimenti resti un povero miliardario» [6].
E se Nedved è stato il nemico, Ronaldo non è stato un alleato. Ricorda Giampiero Timossi: «C’è stato un momento che sembra aver deciso le sorti di Allegri. Nella notte del 16 aprile, notte di Champions, il martedì che l’Ajax mette la Juve alla porta. Cristiano Ronaldo mostra il pollice della mano che sbatte sulle altre dita, rapido e nervoso. Significa una sola cosa: ce la siamo fatta sotto» [5].
In discussione sono finiti poi lo stile di Allegri, la sua filosofia, anche i suoi criteri di gestione del capitale umano. Emanuele Gamba: «Secondo la dirigenza, alla lunga c’è stata troppa rilassatezza nella gestione dello spogliatoio, con l’annullamento dei ritiri prepartita, l’elargizione di giorni di riposo, la tolleranza per qualche atteggiamento anarchico. Ma poi, alla base di tutto, resta la profonda delusione perché l’arrivo di Ronaldo, “lo sbarco dell’alieno”, “l’affare del secolo”, questo mostruoso investimento finanziario ha prodotto la peggiore delle ultime cinque stagioni. E in questi casi, si sa, paga sempre l’allenatore» [3]. 
Serviva un’exit strategy, per tutti. È stata trovata, ma alla Juventus costerà caro, un altro anno di contratto per Allegri, 7,5 milioni di euro netti. «Max resta parcheggiato ai box dalla prossima stagione, al momento non ha proposte né pare smanioso di cercarne. Dicono che Buffon stia insistendo per portarlo a Parigi. Dicono che abbia il profilo giusto per il Bayern. Lui non dice niente» [7].
Intanto a Torino è partita la corsa alla successione. La pista italiana al momento è la più battuta, con Simone Inzaghi come favorito. Agnelli lo apprezza da un paio d’anni, di Paratici è amico d’infanzia e Nedved ha imparato ad averne una buona opinione da compagno di squadra [8].
Al trio Agnelli-Nedved-Paratici piace molto anche Maurizio
Sarri, in risalita nei sondaggi. Anche in caso di successo in Europa League, la sua permanenza al Chelsea è molto incerta. È stata invece significativa la smorfia di Cristiano Ronaldo sabato in conferenza stampa, accompagnata da uno scuotimento di capo, quando è saltato fuori il nome di Antonio Conte, allenatore che non gli sarebbe certo gradito. Conte negli ultimi mesi si era mosso per un ritorno a Torino ma ora sembra vicino all’Inter [8].
È da escludere l’ipotesi di Didier Deschamps: l’ex bianconero vuole restare alla guida della Francia almeno fino agli Europei del prossimo anno. In pista è rientrato invece il nome di Zinedine Zidane che, prima di tornare al Real Madrid, l’11 marzo scorso, era il più accreditato erede di Allegri [3]. 
Un rischio ragionato sarebbe quello di Sinisa Mihajlovic che ha rianimato alla grande il Bologna e che fece un colloquio con Agnelli un mese prima che Conte lasciasse la Juve e arrivasse Allegri, nel 2014. Mauricio Pochettino ha mostrato la volontà di lasciare il Tottenham in assenza di progetti di sviluppo, ma ha costi molto alti, anche per liberarsi. Sempre meno di Pep Guardiola, che nel weekend ha ribadito con veemenza («Quante volte ve lo devo dire!») che resta al Manchester City [9].
 
Note: [1] Antonio Barillà, La Stampa 19/5;
[2] Roberto Perrone, Corriere dello Sport 19/5;
[3] Emanuele Gamba, la Repubblica 18/5;
[4] Paolo Tomaselli, Corriere della Sera 19/5;
[5] Giampiero Timossi, Corriere della Sera 18/5;
[6] Mario Sconcerti, Corriere della Sera 18/5;
[7] Alessandro Bocci, La Gazzetta dello Sport 18/5;
[8] Filippo Conticello e Fabiana Della Valle, La Gazzetta dello Sport 19/5;
[9] Gianluca Oddenino, La Stampa 18/5.
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