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In Italia il numero simbolo delle partecipate pubbliche è il 47, morto che parla. Gli ultimi governi le danno ormai per defunte. Ma in realtà non sono solo vive e vegete ma si moltiplicano e si trasformano in un esercito di zombie sempre pronto a divorare i soldi dei contribuenti. Un esercito che per l’80% ha dimora nel Centro-Nord ma dotato di una forza tale da riuscire a farsi sentire anche in meridione. 4.701 (inizia con il nostro 47…) è il numero delle società partecipate dalla Pubblica amministrazione al 10 novembre 2017, risultato ottenuto alla fine del processo di ricognizione straordinaria avviato dal ministero dell’Economia e che ha coinvolto 11.000 amministrazioni pubbliche.

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Di queste partecipate, 1.650 sarebbero interessate da procedure di dismissione, di fusione o dismissione di partecipazioni di minoranza, tanto che in un trionfalistico comunicato stampa del Mef dell’epoca si sottolineava come una società su tre fosse coinvolta in “interventi di dismissione”. Peccato che a quasi due anni di distanza, solo il 18% delle procedure di alienazione previste si sono conclusi positivamente. Ma non è solo questo il problema. Circa il 30% delle società monitorate (che sono solo una parte di quelle realmente partecipate) è in perdita.

IL RAPPORTO DEL MEF

Nel rapporto del 2016 il Tesoro elenca le prime dodici in rosso, per un totale di 370 milioni di perdite. Tra queste c’è la A4 Holding Spa di Verona, società di gestione di infrastrutture autostradali, che ha chiuso il bilancio dell’epoca con 49 milioni di rosso. Nel bilancio 2017 risultano le partecipazioni del Comune e della Provincia di Verona, della Provincia e della Camera di commercio di Brescia, della Provincia di Vicenza e della Camera di commercio di Padova.

La quota pubblica è del 16,8%, quella privata, detenuta dagli spagnoli di Abertis, è dell’84%. La Provincia di Verona ha dismesso la partecipazione nel 2018 ma fino ad allora ha contribuito, con denari pubblici, alla copertura delle perdite che nel 2017 è stata di 5,7 milioni. Nell’elenco c’è anche Arexpo Spa, società che gestisce l’area lasciata libera da Expo 2015, la fiera tematica che ha contribuito al rilancio di Milano.

Il Ministero dell’Economia detiene più del 39% della società e quindi ha dovuto ripianare una bella fetta del rosso di 46 milioni dichiarato nel 2016. La Regione Lombardia e il Comune di Milano hanno entrambi il 21%, l’Ente fiera il 16,8%, la Città metropolitana del capoluogo lombardo l’1,2% e il Comune di Rho lo 0,6%.

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I DISASTRI

Il Gruppo Torinese Trasporti, finalmente in utile nel 2018, ha però perso quasi 67 milioni nel 2016. Persino la Banca Mediocredito del Friuli che nel 2018 è entrato nel perimetro del gruppo bancario Iccrea, nel 2016 è riuscita a perdere ben 76 milioni e allora la quota di partecipazione pubblica dichiarata era del 55%. E poi c’è la gestione disastrosa del Casinò La Vallee, con la Regione valdostana socia al 99%. La perdita dichiarata nel 2016 di 76 milioni è peggiorata, fino ad arrivare a 53 milioni nel 2018. Ora la Finanza sta conducendo delle indagini sul concreto rischio di fallimento o bancarotta della società Casino spa, che gestisce la Casa da gioco di Saint-Vincent.

Le perdite di bilancio accumulate dalle sole partecipate che si sono “autodenunciate” al ministero dell’Economia nel 2016 sono risultate essere pari a quasi seicento milioni di euro. E le prime 12 società in profondo rosso sono quasi tutte al Nord, dieci, le altre al Centro, due, nessuna al Sud. Ma a scoperchiare il bluff sul numero delle partecipate che lievitano invece di ridursi all’antico obiettivo di 1.000 unità, ci ha pensato l’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano guidato dall’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli.

I NUMERI NON TORNANO

Lo studio dell’Osservatorio Cpi ha infatti sottolineato come la revisione straordinaria delle partecipazioni ha coinvolto solo le società in senso stretto (società per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative e società consortili) e, “con riferimento alle partecipate indirette, la normativa ha previsto che fossero analizzate le sole partecipazioni detenute mediante una “società tramite” controllata dall’ente partecipante. Quindi, il numero di società discusse nel comunicato, derivante dalla revisione straordinaria, non corrisponde all’intero volume di partecipate italiane”. Inoltre ha risposto all’appello l’86% delle amministrazioni coinvolte e solo chi non ha il controllo dell’intera rete della Pa può considerare un successo. Di conseguenza esistono partecipazioni ancora nascoste sotto il tappeto. E la responsabilità non è solo di comuni o regioni.

Questo perché lo stesso Testo unico delle società partecipate che dovrebbe tagliare con l’accetta la proliferazione di queste sanguisughe di denari pubblici è in realtà a dir poco ambiguo. Infatti nella norma non sono state specificate con precisione le categorie delle partecipazioni ammesse e quelle da eliminare, garantendo di fatto la sopravvivenza alle partecipate che producono un “servizio di interesse generale”. Così il comune di Bologna ha mantenuto in vita, sottolinea l’osservatorio della Cattolica, la partecipazione indiretta in due società operanti a Hong Kong e a Parigi, entrambe attive nel restauro e digitalizzazione di materiale audiovisivo e cinematografico.

Cottarelli nel suo rapporto del 2015 aveva indicato chiaramente la necessità di inserire precisi paletti. Perché le amministrazioni locali riflettono l’indole di un popolo e se non obbligate non riescono a dare il buon esempio. Per questi motivi invece di ridursi, le partecipate lievitano e con loro le poltrone affidate ai politici non eletti e agli amici degli amici. Sono 15.037 gli incarichi di rappresentanza affidati ufficialmente, sempre al 2016, per il 75% dei casi ai maschietti. Alla faccia delle quote rosa. Inoltre c’è sempre il gioco delle tre carte da utilizzare: se si fondono due partecipate, basta aumentare il numero delle poltrone da consigliere di amministrazione o da dirigente.

ELENCO INCOMPLETO

Ma alla fine quante sono le partecipate in Italia? Secondo l’Istat sono quasi 6.600 ma anche in questo caso l’elenco è incompleto perché non tiene conto delle società inattive che in ogni caso devono mantenere, a nostre spese, un organo sociale. Se le si comprende si arriva a quota 9.240. Se poi agli zombie si aggiungono quelle fantasma, cioè non dichiarate dalle amministrazioni locali, si arriva facilmente quota 10mila. Mentre il dato certificato dal Tesoro (rapporto 2016) sulle partecipazioni dichiarate è di 59.036, di cui 40.777 dirette e 20.244 indirette. Le partecipate sono inferiori di numero alle partecipazioni perché più amministrazioni possono avere quote di capitale nella stessa società. E anche in questo caso il numero è sottostimato. Questo perché non comprende le partecipazioni indirette multiple che si trovano in un’unica partecipata.

RIFORMA FALLITA

In questi casi la partecipazione risulta essere una sola e l’ammontare è pari alla somma delle singole partecipazioni. Affermare dunque che l’autocertificazione degli enti locali nell’indicare il numero delle partecipate funzioni molto poco, vuol dire essere davvero generosi. Il dato semplicemente non riflette la reale dimensione del poltronificio nazionale, del Nord e lombardo in particolare, visto che è nella regione a guida leghista che si trova proporzionalmente il numero maggiore di partecipate. Ed è lo stesso Mef ad ammetterlo quando dice che includendo nell’elenco anche le partecipazioni pubbliche non dichiarate ma “ricostruite” a partire dalle informazioni contenute nelle sue banche dati, il numero complessivo si attesta a 99.384.

Sembra di giocare al lotto, qui si danno i numeri. Il Tesoro qualche giorno fa ha ammesso il fallimento della riforma, sottolineando come molte micro-partecipazioni non rispondono “a criteri di convenienza economica dell’investimento di risorse pubbliche”.

REQUISITI MANCANTI

Aggiungendo inoltre che su un totale di 32.427 partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche (ancora numeri al lotto!), 18.124 (circa il 56%) “sono risultate non conformi a quanto disposto dal TUSP e pertanto avrebbero dovuto formare oggetto di misure di razionalizzazione”.

Inoltre “è doveroso sottolineare che, per circa il 46 per cento (8.351) di dette partecipazioni non conformi ai requisiti del TUSP, le amministrazioni partecipanti hanno espresso la volontà di mantenere tout court la partecipazione, senza prevedere alcun intervento di razionalizzazione”. Una pernacchia al governo dunque. La riforma avviata non potrà mai dare risultati concreti se prima non si saprà il dato preciso. Inoltre se alla pubblica amministrazione non vengono imposti paletti rigidissimi sui settori permessi, resta elevato il rischio di fare concorrenza sleale al settore privato.

Le perdite delle partecipate vengono coperte pro quota dagli azionisti, cioè anche dai contribuenti. Un vantaggio che gli imprenditori veri non hanno. E se i bilanci dei comuni vengono appesantiti anche dai buchi di bilancio esterni alle amministrazioni, vuol dire che la disponibilità economica derivante dalle tasse da distribuire sui territori si riduce. Ovunque, perché i residui fiscali territoriali, per costituzione, non esistono.


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