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L’evasione fiscale ha raggiunto livelli ormai intollerabili e incide fortemente sul grado di coesione sociale. Ci si attarda a stimarne la dimensione e a tracciare scenari più o meno plausibili nell’ipotesi in cui essa fosse debellata. Molto meno, invece, si discute sui mezzi per contrastarla. Cominciamo con una precisazione. Ci sono vari modi per contrastare l’evasione, alcuni dei quali accrescono il disagio dei cittadini fino a burocratizzarne la vita e l’attività.

Questi evidentemente li escludiamo: pensiamo a metodi che, senza nulla togliere alla ben’intesa libertà delle persone e senza appesantirne la vita con insopportabili formalismi, raggiungano il risultato desiderato. Per contrastare con qualche probabilità di successo l’evasione occorre stabilire un più stretto collegamento tra reddito e patrimonio dei contribuenti, oggi del tutto assente: reddito e patrimonio del contribuente viaggiano su binari paralleli destinati a non incontrarsi. Non vi è un momento di sintesi, un momento in cui «qualcuno» (dotato, tra l’altro, della necessaria competenza) guardi la posizione del contribuente nel suo insieme.

Non si tiene conto del fatto che patrimonio e reddito sono fenomeni connessi e che, generalmente, il patrimonio si forma per effetto di reddito non consumato. Con l’attuale sistema è possibile, ad esempio, che un contribuente, attraverso reddito sottratto alla tassazione, acquisti un immobile, lo passi in eredità ai figli e non venga «scoperto» se non per caso. Questo può e deve essere evitato. Non che attraverso il collegamento reddito patrimonio si riesca a contrastare tutte le forme di evasione, perché ve ne sono alcune che richiedono strumenti diversi, ma intanto cominciamo, tanto più che si può farlo senza appesantire significativamente gli obblighi del contribuente, mentre la certezza di essere «scoperti» costituisce un efficace deterrente contro l’evasione e contribuisce a mutare, seppur lentamente, il costume nazionale. Ma come si realizza, in concreto, un tale collegamento?

Il modo più semplice consiste nel chiedere al contribuente di compilare un prospetto contenente il proprio patrimonio (o alcune sue «voci») e le variazioni che esso o le «voci» hanno ha subito nell’anno per effetto di acquisti, di vendite, donazioni, eredità, ecc. in modo che risulti con chiarezza, ad esempio in caso di acquisto, da dove ha tratto le risorse. Si tratta in sostanza di unire alla dichiarazione dei redditi un apposito prospetto contenente il patrimonio, o alcuni suoi elementi opportunamente configurati, e le variazioni intervenute nell’anno. Aggiungerei poi alcune domande che, all’occorrenza, possono costituire prove della mendacità del contribuente.

Ad esempio: avete conti correnti all’estero? Siete titolari di beni per interposto soggetto? Eccetera. Non si tratta evidentemente di un’operazione facile ma, sapendo esattamente quel che si vuole, si riesce a mettere «alle corde» il contribuente infedele. Occorre probabilmente una modifica del nostro ordinamento tributario. E vi si può procedere attraverso la redazione di un Nuovo Testo Unico che dovrebbe vedere la luce dopo una lunga e penetrante opera di sensibilizzazione «culturale» dell’opinione pubblica. Sarebbe illusorio, infatti, pensare di fare una riforma di questo tipo senza il convinto sostegno di una larga maggioranza dei cittadini; così come sarebbe illusorio pensare di vincere di colpo la diffusa ed endemica riottosità al dovere tributario tipica del nostro Paese. È solo l’inizio di un processo che conviene, comunque, avviare, perché non crea disagio al contribuente, almeno a quello onesto.

È inutile sottolineare che il collegamento tra reddito e patrimonio in capo al contribuente implica problemi tecnico contabili ma ancor prima implica complessi problemi politici inerenti il trattamento da riservare al patrimonio in essere probabilmente formatosi, almeno in parte, a seguito di precedenti evasioni fiscali. Su questo punto – premesso che l’ultima parola spetta alla politica – consiglierei per tante e intuibili ragioni di guardare al futuro vincendo le forti tentazioni giustizialiste di guardare al passato. Mi limiterei ad una sorta di autocertificazione fatta dallo stesso contribuente, secondo un apposito schema, da inserire nella dichiarazione dei redditi dell’anno successivo all’innovazione. In questa autocertificazione, il contribuente riporterà la descrizione dei beni di cui dispone la quale costituirà la base per le successive variazioni annuali. È vero che con l’autocertificazione ci si affida, senza contraddittorio, al contribuente ma è anche vero che quest’ultimo non ha interesse a mentire perché, a distanza di tempo, le menzogne gli si possono ritorcere contro, sicché ha interesse a fornire una rappresentazione fedele dei propri beni patrimoniali rilevanti ai fini del collegamento di cui abbiamo parlato. In ogni caso, pur se sconsigliabile, nulla impedisce di prevedere norme di controllo dell’autocertificazione.


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