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Torna il problema del partito, anzi, per essere esatti della “forma partito”, cioè di come debba essere e come debba strutturarsi una organizzazione per ambire a rispondere a quelle domande che venivano poste dalla società e dalla politica a quelle forze che aspiravano a canalizzare e a tramutare in azione le istanze dei cittadini. Torna su due fronti che più diversi non potrebbero essere: il partito più nuovo, sebbene rifiuti quel nome, cioè i Cinque Stelle e quello più antico per legami con la storia dell’Italia repubblicana, cioè il PD. Ed è anche significativo che si tratti degli unici due partiti di qualche spessore senza una leadership personale assoluta (Lega, FdI, FI, IV, ce l’hanno con tutta evidenza).

UNO NON VALE UNO

M5S si accorge che la mitologia del uno vale uno, del movimento contro tutti, quello che apre il parlamento come una scatoletta di tonno e via elencando non serve a molto quando si deve tradurre un cospicuo consenso in una forza di governo. Certo ci si può vantare di aver piantato un certo numero di bandierine, magari approfittando della debolezza dei partner, ma poi questi presunti successi non solo non hanno prodotto l’acquisizione di nuovi consensi, ma non sono neppure riusciti a mantenere quelli che aveva già guadagnati. Perché tutto questo? Perché non c’è un partito, ma una ammucchiata di parlamentari, selezionati un po’ casualmente, perché manca una sede in cui elaborare strategie e persino tattiche se non colla vista corta di coloro che devono difendere le posizioni governative ottenute, perché non c’è un lavoro di vero radicamento sul territorio, non bastando più le chiamate a raccolta occasionali per protestare un po’ magari limitandosi ad una sede digitale.

La trovata di sistemare le cose inventandosi un leader, anzi proprio un “capo politico” che tenesse tutto insieme ha mostrato subito la sua debolezza. I leader non si inventano a tavolino, servono talenti per farlo. Lasciamo pur perdere il problema delle “competenze”, ma ci vuole almeno la capacità di legare a sé i seguaci compattando la propria gente, ci vuole la capacità di indicare orizzonti in maniera convincente. Di Maio queste caratteristiche ha mostrato di non averle, e adesso il dilemma che si presenta al gruppo dirigente pentastellato è tanto banale quanto classico: ci si sbarazza del capo provando a trovarne un altro (ma non si sa come), oppure si trasforma il “capo” semplicemente in un più o meno tradizionale “segretario” di partito, che prova a coordinare una struttura interna di referenti e di organizzatori?

SPAZIO PER TUTTI

Nel caos attuale non si sa ancora quale via scegliere e dunque c’è spazio per tutti quelli che vogliono influenzare le scelte facendo filtrare notizie e indiscrezioni sui giornali. Siamo però in un passaggio delicato, con verifiche elettorali che peseranno, e dunque tutti stanno coperti, lanciando sassi, ma nascondendo rapidamente la mano. Tanto essendoci fissato a marzo qualcosa di simile ad un congresso del partito (lo si chiama “stati generali” per non contaminarsi col vecchio linguaggio, ma quello è) si può rinviare a quell’occasione la resa dei conti. Intanto si tirerà avanti e si continuerà a brigare.

FRENATA LA FUGA

Specularmente qualcosa di simile accade nel PD, anche se il contesto è completamente diverso. Intanto quel partito ha frenato l’emorragia di consensi e si aspetta di andare se non bene, almeno benino nelle prove elettorali prossime. Non ha il problema di doversi sbarazzare di un leader, perché quell’operazione l’ha già fatta silurando Renzi non avendo avuto dopo che tradizionali segretari. Ha però anch’esso il problema di uscire dalla situazione poco buona di essere diventato una federazione di correnti, senza contare che la sua presa elettorale non è sufficiente non diciamo per tornare alla prospettiva della vocazione maggioritaria, ma neppure per quella del partito chiave di ogni possibile coalizione.

Zingaretti ha colto il problema ed ha lanciato il programma di fare un “partito nuovo”, meno legato ai meccanismi del professionismo politico e più capace di mettersi al servizio delle istanze che sorgono dalla società. Lodevoli propositi, ma più facili a dirsi che a farsi. E non solo perché è impossibile che smonti una struttura ancora ampia e solida di professionisti della politica che non può semplicemente mettere in mezzo alla strada.

CREATIVITÀ SOCIALE

C’è anche il problema che diventare il canale di raccolta della creatività sociale non è operazione così semplice, perché si tratta non di registrare fenomeni di tutta evidenza, ma di essere capaci di cogliere evoluzioni e figure in formazione: un’operazione che in parte è sempre, come ogni scelta, una scommessa e che dunque si presta a tutti i tipi di critiche e contromosse. Questo rilancia il problema della leadership: un partito come quello che ha in mente Zingaretti riesce, soprattutto nella fase di impianto, solo se ha un “capo” che possa tenere sotto controllo il vecchio apparato e gli appetiti di quelli che vorranno infilarsi nelle nuove opportunità.


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