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Il premier Giuseppe Conte

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Lo scoglio europeo è stato evitato e Conte torna a Roma con l’aura del vincitore. Non era scontato. Adesso naturalmente c’è da vedere se è stato wrestling o lotta all’ultimo sangue, probabilmente un poco dell’uno e un poco dell’altra. Come hanno scritto quasi tutti gli osservatori il sistema europeo non è fatto per le rotture, ma solo per grandi compromessi che in teoria dovrebbero far fare un passo avanti all’Unione. In teoria, perché in realtà una volta di più è prevalsa la natura confederale della governance, che non ha lasciato veri spazi né alla Commissione (la von der Leyen è rimasta più che ai margini della scena) né al parlamento, di cui i capi di stato non hanno tenuto alcun conto. Però indubbiamente si è dimostrato una volta di più che dall’Unione non si può uscire, a meno di non esserci mai davvero entrati appieno come era successo con la Gran Bretagna, che si era sempre ostinatamente tenuta ai margini dei processi di integrazione.

Non è il caso dei cinque cosiddetti frugali, che non possono permettersi di rompere, ma solo di tirare la corda per portare a casa un po’ di soldi risparmiati sulle quote che devono versare al bilancio comunitario: il resto è una sceneggiata per le rispettive opinioni pubbliche. Non ha avuto torto Conte a sottolineare che ciascuno ha a casa i suoi Salvini, ma avrebbe dovuto aggiungere che poi ci sono quelli come la Merkel e Macron che i loro Salvini non hanno paura a sfidarli con durezza senza lasciarsene condizionare.

Che il premier italiano abbia comunque condotto una buona battaglia e che abbia portato a casa un buon risultato è indubbio. La partita era difficile, perché scendeva in campo portandosi sulle spalle il peso di una politica non esattamente brillante quanto a gestione dell’economia. Ha però potuto contare su due fattori importanti: decisivo il peso che Merkel e Macron hanno messo in campo nella consapevolezza che l’Italia è un tassello portante della UE e non si può lasciarla fallire; significativo il fatto che nel complesso i capi di stato non avevano interesse a sostenere la parodia del puritanesimo di Olanda e Austria, per la nota massima di Nenni che a insistere sul principio della purezza prima o poi trovi sempre uno più puro che ti epura.

Adesso però viene il bello e Conte deve lavorare perché la sua non sia la classica vittoria di Pirro, dopo la quale, anzi addirittura a causa della quale arriva la sconfitta. A Bruxelles il premier ha potuto sfruttare l’aiuto involontario che gli ha garantito Salvini: la minaccia di favorire con una crisi economica accentuata l’ascesa in Italia di un politico populista e demagogico, che vede dappertutto benefici pensionistici, flat tax, tentazioni di uscire dall’euro e via elencando, ha fatto digerire a più di un capo di governo le remore per un esecutivo che non riesce a resistere alla politica dei bonus e alle sirene dell’assistenzialismo. Non significa però che abbia ottenuto un via libera a gestire tutto nell’ottica di puntellare una maggioranza a dir poco traballante.

Quella che Conte è riuscito a portare a casa è una montagna di denaro, ma non è qualcosa privo di condizioni e presenta il rischio di crollarti addosso seppellendoti sotto il suo peso. Vediamo di chiarire questi punti. Innanzitutto le condizioni che ci sono e sono serie. Non si è voluto il MES per timore di condizionamenti che erano stati esclusi, ma che si sostiene avrebbero potuto essere tirati in ballo in futuro (assolutamente improbabile). Adesso si plaude ad un mix di sussidi e di prestiti che hanno non solo una condizione chiara, ma anche un meccanismo di verifica molto preciso. I soldi ci verranno dati se presenteremo piani dettagliati e convincenti di impiego per gli obiettivi fissati dalla UE e la realizzazione di questi piani sarà monitorata. Si può esultare perché è stata sconfitta l’ottusa richiesta di potere di veto dell’Olanda, ma la possibilità anche per un singolo paese di denunciare lo scostamento o la non realizzazione degli obiettivi è passata (l’hanno chiamata freno di emergenza). Certo sarà sottoposta al vaglio del Consiglio Europeo che deciderà con un voto a maggioranza qualificata, ma se da uno o più paesi verrà aperta con fondamento una questione sul comportamento dell’Italia, sarà già sufficiente per farci pagare uno scotto pesante sui mercati. E poi sarà difficile che il Consiglio chiuda un occhio dopo la denuncia di mancanze serie.

Siamo sicuri che il governo Conte sia in grado di non mancare l’appuntamento con l’impegno di utilizzare la montagna di soldi che potrà avere a disposizione per far fare all’Italia il salto di qualità che giustifichi questo sostegno massiccio? La domanda non è retorica e non trova risposta semplicemente nella valutazione delle qualità tecniche e politiche del premier e della sua squadra. C’entrano anche quelle, ma non bastano. Il tema di fondo è se il paese nel suo complesso ha maturato che il sostegno europeo non ci viene dato perché rimettiamo in piedi il mondo di ieri. Sarebbe facile fare la battuta sulle nazionalizzazioni, dall’Alitalia, alle banche ad Autostrade, magari all’Ilva, ma non è tutto lì. Inutile nascondersi che un po’ tutti, imprenditori piccoli e grandi, servizi, regioni, sindacati, lobby varie e anche pur rispettabili portatori di interessi che in tempi di vacche grasse sono stati sostenuti, premono in quella direzione.

Quando la crisi colpisce ci sono sempre due logiche che si scontrano: il solidarismo di chi predica che siamo tutti sulla stessa barca e l’egoismo poco sacro di chi urla il ciascuno per sé e Dio per tutti. Poi non è neppure difficile mischiare le due cose. La politica, nel suo complesso dovrà essere in grado di compattare il paese in uno sforzo condiviso e convinto di utilizzo dei fondi europei per avviare una svolta nella vita del paese. Le riforme sono un terreno arduo, ma lo è ancor più riunirle tutte in uno spirito riformatore a cui vanno dati leader e strumenti all’altezza del compito.

Non vogliamo dire che non sia aria per questo, ma possiamo realisticamente vedere che non stiamo per combattere una battaglia facile. Il governo deve mettere ordine al suo interno e aprire un confronto serrato su questa “filosofia” e poi deve estenderlo, ma sinceramente non strumentalmente, anche alle opposizioni: finiranno disarticolate sia la maggioranza che le opposizioni, ma è un passaggio inevitabile per tagliarsi i ponti alle spalle con tutti quelli che credono che sia arrivata la Befana europea che ci ha portato in regalo la ricostruzione di tanti piccoli (e nell’immaginario buoni) mondi antichi.


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