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Studenti a scuola

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Undici anni dopo la legge Calderoli sul federalismo fiscale, gli effetti sono devastanti per il Sud: da un lato la mancata applicazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni introdotti dalla riforma del titolo V della Costituzione ma del tutto ignorati; e dall’altro il calcolo dei fabbisogni standard dei Comuni che altro non fa che ricalcare la vecchia spesa storica, hanno messo in ginocchio le Regioni e i Comuni del Mezzogiorno. Uno scippo continuo di risorse, in tutti i settori, che ha finito per acuire il divario tra Nord e Sud. Lo dicono i numeri, ad esempio quelli di Openpolis, la fondazione che da anni si occupa di trasparenza e accessibilità dei dati della pubblica amministrazione.

Se il sistema del federalismo fiscale fosse stato equo, il Comune che avrebbe guadagnato di più sarebbe stato quello di Giugliano, in Campania, dove oggi mancano all’appello 33 milioni di euro (270 euro pro capite). Reggio Calabria avrebbe dovuto ricevere 41 milioni in più, 229 euro a testa. Seguono Crotone (3 milioni, 206 euro a cittadino), Taranto (39 milioni, 198 euro pro capite). Catanzaro (15 milioni, 168 euro pro capite), Bari (53 milioni, 166 euro pro capite). Ma il Comune che perde di più in termini assoluti è Napoli (159 milioni, 164 euro pro capite). Il calcolo dei fabbisogni standard è il vero problema. La Regione Puglia, nel 2016, per garantire agli oltre 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più.

E’ quanto emerge sempre consultando il database di OpenCivitas, il portale di accesso alle informazioni degli enti locali, un’iniziativa di trasparenza promossa dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Il progetto nasce con la legge 5 maggio del 2009, la numero 42, in materia di federalismo fiscale che ha segnato l’avvio di un processo di riforma che prevede la determinazione dei fabbisogni standard per gli enti locali italiani. Il portale, raggiungibile dal sito del Mef, permette di confrontare due o più enti (Comuni, Province o Regioni) per effettuare un benchmarking rispetto ai livelli di spesa sostenuta e ai servizi erogati per le funzioni analizzate. I servizi che possono essere paragonati sono sei: costo della macchina amministrativa, spesa per la polizia locale, l’istruzione, la viabilità, la gestione dei rifiuti e per gli asili nido. Confrontando la spesa storica (l’ammontare effettivamente investito dalla singola Regione o da un Comune in un anno per l’offerta dei servizi ai cittadini) con la spesa standard (il reale fabbisogno finanziario di un ente in base alle caratteristiche territoriali, agli aspetti socio-demografici della popolazione residente e ai servizi offerti) emerge che il Nord spende più del suo reale fabbisogno, potendo contare su maggiori trasferimenti statali; mentre il Sud deve rimboccarsi le maniche e far quadrare i conti.

Ecco qualche esempio: le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi. Hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno. Insomma, da una parte c’è un’area dell’Italia (il Nord) che riesce ad incassare maggiori trasferimenti statali e, di conseguenza, può spendere e spandere, offrendo ai proprio cittadini servizi efficienti e superiori alla media; dall’altra parte, c’è un’altra zona del Paese (il Sud) che riceve meno soldi da Roma e deve fare le nozze con i fichi secchi.

Anche per finanziare la rete degli asili nido il Mezzogiorno ha dovuto fare i salti mortali: infatti, rispetto al reale fabbisogno, le Regioni hanno ottenuto trasferimenti inferiori dell’8,46%, mentre il Nord-Ovest ha speso l’8,25% in più rispetto alle esigenze. Se le Regioni del Mezzogiorno per l’istruzione possono spendere per ogni loro ragazzo 42 euro, quelle del Nord hanno a disposizione più del doppio: circa 92 euro pro capite. L’elenco delle ingiustizie può proseguire con la voce “welfare e asili nido”: la spesa pro capite al Sud, nel 2016, è stata di 80 euro circa, al Nord di oltre 130 euro, al Centro 141 euro. Viabilità: per le strade e le infrastrutture il Mezzogiorno, mediamente, ha investito 71 euro per ogni suo cittadino, il Nord 86 euro.

Dalle Regioni ai Comuni, la situazione non cambia: sapete quando può spendere la città di Milano per garantire l’istruzione dei propri ragazzi? Mediamente 1.106 euro per ogni studente. Napoli, invece, appena 845 euro pro capite, Bari 737 euro, Reggio Calabria addirittura 540 euro; contro i 993 di Bologna e i 913 euro pro capite di Torino. Per gli asili nido il Comune di Reggio Calabria non può permettersi di stanziare, in media, più di 45 euro per ogni suo bambino, Milano spende, invece, 309 euro pro capite, Torino 208 euro, Bologna 246 euro; Bari e Napoli, rispettivamente, 181 e 142 euro per ogni bimbo. Il quadro che viene fuori è quello di un’Italia spezzata in due, un Paese che, per forza di cose, viaggia a velocità diverse perché le Regioni e i Comuni non vengono posti nelle stesse condizioni. Anche sulla viabilità e infrastrutture, la forbice resta larga tra Sud e Nord: si va dai 63 euro pro capite investiti dalla Puglia agli 89 euro dell’Emilia Romagna.


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