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Un momento dei disordini registrati a Napoli

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Cassonetti dati alle fiamme e altri rovesciati, lanci di pietre all’indirizzo di Palazzo Santa Lucia (sede della presidenza della Regione Campania), scontri con la polizia e lacrimogeni per disperdere la folla. Immagini andate in scena a Napoli il 23 ottobre scorso ma che, di lì a poco, si sarebbero replicate quasi in ogni parte d’Italia.

Proteste, quelle partenopee, scatenate dalla solita retorica incendiaria del governatore Vincenzo De Luca che, dopo mesi di lockdown, annunciava l’intenzione di alzare di nuovo il ponte levatoio per l’emergenza Covid-19 isolando la Campania dal resto del Paese.

«È necessario chiudere tutto, fatte salve le categorie che producono e movimentano beni essenziali. È indispensabile bloccare la mobilità. La Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo», affermò il governatore del Pd. Parole che, come benzina sul fuoco, scatenarono la rabbia di ristoratori, imprenditori, liberi professionisti e semplici cittadini terrorizzati dalla prospettiva di una nuova clausura senza alcun tipo di garanzia economica.

A distanza di poche ore dalla diretta Facebook del politico dem, le strade di Napoli si trasformarono infatti in uno scenario che alcuni quotidiani definirono di guerra. Ma chi è che manifestava? Chi c’era in piazza? Secondo il Viminale e secondo lo stesso De Luca dietro quelle proteste si mossero i clan della camorra interessati a creare conflitti in seno allo Stato per approfittare delle condizioni di caos. Una narrazione che fece presa anche presso la pubblica opinione e che attecchì, come una malapianta, nel dibattito politico riuscendo a convincere anche qualche alto magistrato antimafia. A distanza di mesi, però, la verità è venuta a galla. E a scriverla è quella stessa commissione Antimafia che pure aveva contribuito ad etichettare i manifestanti come fiancheggiatori dei criminali e simpatizzanti della lupara.

«I fatti di cronaca che hanno riguardato Palermo, Napoli, Roma, Torino – per citare solo alcune delle città che hanno visto manifestazioni più o meno spontanee contro le chiusure e le restrizioni imposte dal Governo – al momento non possono essere trattati come fenomeni organizzati o coordinati dai locali clan mafiosi», c’è scritto nella relazione sull’emergenza Covid depositata qualche giorno fa in Parlamento. Insomma, abbiamo scherzato. «La Commissione – si legge nel dossier – ritiene di poter affermare che l’atteggiamento tenuto dalle varie componenti mafiose sui territori sia sostanzialmente incompatibile, di conseguenza, con la regia e la gestione dei disordini che si sono manifestati in varie città italiane a ridosso della proclamazione del lockdown e delle successive zone rosse».

«Questa analisi – c’è scritto ancora – viene sostanzialmente confermata nell’ultima relazione semestrale della Dia relativa al primo semestre 2020, all’interno della quale, con riferimento all’analisi delle varie province ove le mafie operano, viene riscontrato un impegno specifico sempre più orientato a modelli imprenditoriali, declinati sulla base delle specificità territoriali all’interno delle quali sono operative».

Ragion per cui «tramare e rafforzare la propria posizione, per cogliere al meglio le opportunità imprenditoriali che il territorio offre, non richiede, tanto meno in questa fase, il ricorso alla violenza e quindi verosimilmente esclude la componente mafiosa nell’organizzazione dei disordini sociali riscontrati a macchia di leopardo sul territorio nazionale». E pensare che, proprio riguardo al caso napoletano, il presidente della commissione Antimafia Nicola Morra era stato tra i primi a fare riferimento ai «clan della Pignasecca, del Pallonetto e dei Quartieri Spagnoli» dietro le ribellioni.

Invece la storia è tutt’altra. Non mafiosi, dunque, ma semplicemente uomini e donne disperati. Operatori economici e commerciali messi in ginocchio dai ritardi (o dalla mancanza) di indennizzi adeguati, ancorché promessi dal governatore De Luca e dal premier dell’epoca, Giuseppe Conte. Oltre al danno di essere finiti sul lastrico pure la beffa di sentirsi chiamare mafiosi.


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