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Qualcuno ha paragonato gli Stati generali dell’economia al festival di Sanremo, con superstar e ospiti internazionali. Ma, al di là dell’umorismo, il senso di essi dovrebbe essere quello di immaginare un progetto Italia, un piano per il 2030. E speriamo che finalmente esca una visione per questo Paese.

Dall’unificazione del 1860 solo nel periodo della Cassa del Mezzogiorno di Pescatore vi è stato un progetto unitario, dopodiché si è navigato a vista, con i furbetti del quartierino che andavano “rubando” delle risorse per le loro piccole visioni. Mai per il Paese nella sua globalità.

Il risultato è davanti a tutti: un Paese diviso in due, nel quale si vincono le elezioni promettendo di non far lavorare. Nel quale il Nord si sente governato da chi non avrebbe le carte in regola per farlo, secondo la loro visione. In tali condizioni qual è l’obiettivo di un piano di sviluppo? Qual è l’obiettivo che per i prossimi dieci anni deve conseguire?

IL VERO OBIETTIVO

Credo che non ci possa essere nessuno che possa non condividere che il vero obiettivo è quello di fare in modo che chiunque, nel nostro Paese, abbia voglia e possibilità di lavorare possa trovare una offerta di lavoro che lo possa interessare. Meglio se tale opportunità possa essere trovata nell’area di appartenenza. Certamente non sotto casa, ma se si potessero evitare i trasferimento biblici degli ultimi sessant’anni, dal dopoguerra in poi , sarebbe certamente opportuno.

Tale condizione, al di là di momenti particolari, è già una realtà nel Centro Nord, nel quale, a fronte di una popolazione di poco meno di 40 milioni di individui, lavorano circa 17 milioni di persone, compresi i sommersi, superando il rapporto del 40% sulla popolazione complessiva, vicine a quelle delle realtà a sviluppo compiuto come per esempio l’UK (31 milioni di occupati), la Germania (41) o la Francia (26.75). Le popolazioni relative di tali Stati sono note a tutti e quindi anche il rapporto tra popolazione e occupati.

E poi si ha l’area del Mezzogiorno continentale e insulare nel quale, con una popolazione di 21 milioni di abitanti, lavorano appena poco più di sei milioni di persone, sempre compresi i sommersi, vicino a una percentuale del 30%, con un’esigenza di saldo occupazionale che va dai 2 milioni (se si fa il confronto con la media del Centro Nord) ai 3 milioni, come sostiene Svimez, se il confronto lo si fa con il rapporto dell’Emilia Romagna, che può essere considerato il benchmark di riferimento e l’obiettivo, probabilmente, di tutto il Paese. In quel caso il rapporto sarebbe quasi di uno a due, cioè un 48%, che porterebbe il Paese ad avere un’esigenza di 28,8 milioni di occupati complessivi, quindi una esigenza di oltre 5 milioni di posti di lavoro, tre dei quali nel Mezzogiorno.

CRESCITA E STRATEGIE

Queste sono le dimensioni del problema italiano. Partendo da queste esigenze è chiaro che il tema centrale che dovrebbe occupare gli Stati generali dell’economia dovrebbe essere quello di come superare le problematiche congiunturali riguardanti il Covid e tornare alle dimensioni occupazionali precedenti la pandemia, e poi come far crescere le dimensioni economiche complessive per poter rispondere al primo articolo della Costituzione che recita che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

Guardando la realtà meridionale si vede che la distribuzione per settori di attività è ancora spostata verso l’agricoltura, che ha una percentuale di occupati di oltre il 7%, destinata ad avvicinarsi alle percentuali dei Paesi industrializzati come la media della Ue che è nell’ordine del 3% ed è quindi in parte sovradimensionato. Il settore che è invece certamente sottodimensionato è quello dell’industria manifatturiera, mentre quello dei servizi è già molto sviluppato, raccogliendo, oltre ai servizi alle imprese, anche tutta l’occupazione assistita, che nel Mezzogiorno alcune volte è presente, mentre la parte dei servizi che ancora può dare risposte, anche se non particolarmente soddisfacenti, è quello dell’occupazione collegata ai servizi turistici e all’indotto che tali attività possono creare.

Per questo bisogna che ci si concentri sul modo in cui attrarre investimenti in tale realtà, quindi sulle Zes e sulle condizioni necessarie per far sì che tale attrazione possa essere condotta: infrastrutturazione adeguata, lotta alla criminalità, semplificazione amministrativa e poi i vantaggi sulla fiscalità e il cuneo fiscale.

PUNTI CHIAVE

Ma perché i vantaggi per tali aree siano effettivi bisogna per esempio evitare un reshoring non competitivamente vantaggioso per chi si insedia nel Mezzogiorno: è necessario che alcuni vantaggi siano esclusivi per tali aree, perché se, come si pensa di fare, si allargano a tutto il territorio nazionale è evidente che non fungeranno da elemento attrattivo per il Meridione. E poi il turismo al quale si collegano virtù taumaturgiche circa i posti di lavoro che creerebbe, ma che dovrebbe prevedere un incremento molto consistente del numero di presenze complessive, considerato che ancora oggi l’intero Mezzogiorno ha presenze pari a poco più quelle del solo Veneto e che certamente una crescita esponenziale di tale settore prevede operazioni straordinarie che bisognerebbe mettere in atto per attrarre investimenti di gruppi turistici di investitori importanti.

Senza dimenticare che il flusso occupazionale che creano le presenze si dimensiona in media al 5 per mille di esse, per cui il raddoppio delle presenze, mission impossible ed estremamente complessa, comporterebbe una crescita occupazionale di 400 mila posti di lavoro tra diretti e diretti, cifra importante ma non risolutiva per il Sud, che viaggia nell’ordine dell’esigenza della creazione dei 3 milioni di posti di lavoro, se vuole stoppare quel flusso di viaggi della speranza del lavoro che tanto danno stanno facendo al Sud e che portano alla sua desertificazione.

Ma che porta danno anche al Nord, che subisce una pressione immigratoria che porta poi a un uso eccessivo del territorio, oltre che a un’esigenza di aumento degli insediamenti produttivi, che portano ad aumentare l’inquinamento già presente in alcune aree.

RECUPERO DEL PIL

Il metodo di fondo che non pare si voglia adottare è di avere un filo rosso prevalente che condizioni le scelte a una visione che metta in prima linea l’esigenza fondamentale che ha il nostro Paese, quello di eliminare le disparità tra aree. Un recupero di Pil da parte del Sud per portarlo a quello medio italiano significherebbe avere un importo ulteriore di 300 miliardi l’anno di Pil, sicuramente importanti per eliminare molti trasferimenti di sostentamento da parte delle regioni più ricche, e dare un mercato di consumo importante alla base produttiva del Paese che tanto sta soffrendo in questo momento, costretta a potenziare il mercato internazionale e l’export per il crollo di quello meridionale, impoverito e sempre più asfittico.

L’alternativa a tale approccio è quella di considerare il Paese di Trilussa, quello dei due polli in cui ciascuno ne mangia mezzo, anche se uno ne mangia uno intero e l’altro resta morto di fame. Ma non bisogna dimenticare che il rischio, per quello che mangia, è che l’altro, affamato, possa reagire improvvisamente in malo modo.


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