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L’intervento a gamba tesa di Grillo su Tim ha avuto il merito di aver messo in movimento una partita che il virus aveva messo in quarantena. Non è la prima volta che il comico si occupa di telefoni. Possiamo dire che il seme del Movimento Cinque Stelle nasce proprio dalle sue infuocate parole all’assemblea del gruppo telefonico nel 2010. Al di là della consueta aggressività e del fatto che comunque Grillo è un privato cittadino resta l’importanza dei concetti che ha espresso. A cominciare dall’unificazione delle reti di Tim e di Open Fiber che consentirebbero grandi risparmi e un servizio probabilmente più efficiente. Non a caso il titolo è salito dell’1% e si è meritato pure un giudizio positivo da parte degli analisti di Equita. A loro parere le azioni Tim sono da acquistare fino a 0,47 centesimi (ieri ha chiuso a 0,37 euro).

Per il gruppo guidato da Luigi Gubitosi il tema delle rete è assolutamente centrale. Ancora di più per Vincent Bollorè che, attraverso Vivendi possiede il 25%. Per acquistare la partecipazione ha investito 3,9 miliardi ma adesso il valore si è dimezzato a due miliardi. Per uscire, come a questo punto appare inevitabile vuole essere rimborsato al prezzo che ha pagato. Non un centesimo in meno. E quanto Bollorè sia cocciuto su questo fronte si è visto nell’altra partita italiana in cui è impegnato. Vale a dire Mediaset di cui ha direttamente e indirettamente il 29%.

Gli costa 1,26 miliardi ma ora vale 570 milioni. Da più di due anni ha ingaggiato una guerra di carta bollata con la famiglia Berlusconi per farsi liquidare. Non accetta un centesimo in meno dei 3,2 euro ad azione che gli servono per uscire indenne dalla partita. Su Tim è immaginabile che sarà ancora più intransigente. Sia perché la perdita è più alta sia perché sa bene che il suo 25% rappresenta una minoranza di blocco invalicabile. Qualunque decisione speciale sul futuro del gruppo telefonico deve avere il suo appoggio. Per arrivare alla fusione con Open Fiber, come appare inevitabile, serve un’assemblea straordinaria con una maggioranza qualificata. Senza Bollorè non c’è quorum. Un passaggio tecnic determinante per capire gli sviluppi partendo da un presupposto: Tim non può perdere il controllo della rete. Altrimenti diventerebbe una compagnia telefonica come tutte le altre. E forse nemmeno la più redditizia considerando il carico di debiti lasciato in eredità dalla scalata fatta dalla “razza padana”.

Non a caso il tema della rete segna la vita dell’azienda da almeno quindici anni. Dai tempi del famoso piano elaborato da Angelo Rovati, ai tempi capo della segreteria del presidente del consiglio Romano Prodi. Anche allora lo scontro fu violentissimo al punto che Marco Tronchetti Provera fu costretto a lasciare la presidenza del gruppo. Successivamente vendette anche la quota che aveva attraverso Pirelli con una rilevantissima perdita. Dopo toccò a Franco Bernabè difendere la rete e a seguire tutti i manager e gli azionisti che come una girandola impazzita hanno guidato il gruppo. Fino alla situazione attuale che vede Vivendi come primo azionista al 25% al termine di un durissimo braccio di ferro con il Fondo Elliott.

Il punto più alto dello scontro fu raggiunto quattro anni fa con la lite furibonda tra Flavio Cattaneo, amministratore delegato di Tim e Matteo Renzi, allora presidente del consiglio. Le conseguenze furono devastanti per tutti: Cattaneo fu costretto a lasciare l’azienda mentre Renzi attraverso Enel e Cdp teneva a battesimo Open Fiber. L’azienda venne incaricata di realizzare una rete a fibra ottica in alternativa a quella di Tim sfruttando le canaline che portano i cavi elettrici. Una scelta decisamente affrettata perché è stato come costruire una seconda Autostrada del Sole o, se si preferisce, una seconda linea ferroviaria ad Alta Velocità. Uno sforzo finanziario immenso con risultati modesti. E infatti Tim è uscita industrialmente indebolita mentre Open Fiber è ben lontana dall’aver raggiunto gli obiettivi previsti: su otto milioni di unità immobiliari che aveva garantito di poter connettere è arrivata a sei milioni Inoltre dal sito del Mise si ricava che entro il 2020 saranno rese disponibili le infrastrutture solo nel 16% dei Comuni indicati nella gara. A oggi su 2914 cantieri aperti, 875 risultano ”pronti al collaudo”, di cui collaudati 606. 

Da qui la proposta di fondere le due reti cercando di razionalizzare le strutture e limitare le spese. Il problema come sempre è la governance. Chi comanda? Tim, come abbiamo visto ha il problema di non privarsi del suo tesoro. Gubitosi e Vivendi sono disponibili a costruire una scatola nella quale far confluire la fibra ottica di Tim e quella di Open Fiber. A condizione, però, di averne il controllo. Il progetto del governo, di Enel e di Cdp invece è assolutamente opposto: una rete aperta dove, a parità di condizioni tutti i telefonisti possono accedere. Un po’, per capire, come accade con Terna per la trasmissione elettrica.

L’unica maniera per risolvere il problema è quello di trovare una via d’uscita accettabile per Bollorè passando il bastone del comando a Cdp. Come fare? Non certo in maniera aggressiva. Cdp ha il 10% di Tim. Se salisse al 25% dovrebbe lanciare un’Opa su tutto il capitale. Improponibile. La strada migliore è quella della fusione che darebbe automaticamente alla società pubblica la maggioranza. Cdp porterebbe il suo 50% di Open Fiber che si andrebbe a sommare al 10% di Tim che già possiede. La quota di Vivendi invece verrebbe diluita. Andrebbe in minoranza senza nemmeno incassare un centesimo. Anche questo improponibile. Tanto più che l’operazione dovrebbe essere approvata da un’assemblea straordinaria di Tim in cui serve il voto voto favorevole del finanziere bretone. Non è pensabile. Ma è anche vero che senza l’uscita dei francesi non c’è futuro per Tim.


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