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Un crack colossale e almeno ventimila posti di lavoro fra diretti e indotto. Sono questi i numeri che il consiglio dei ministri dovrà prendere in esame dovendo decidere se revocare o meno la concessione ad Autostrade per l’Italia. Una partita delicatissima: non a caso già si parla di un possibile rinvio di un paio di giorni.

L’ostilità del governo nei confronti della famiglia Benetton e in particolare del presidente Conte, è ormai evidente. Traspare tutte le volte che il premier è chiamato a esprimersi su questa delicatissima questione. Sicuramente la dinastia trevigiana non si è dimostrata all’altezza della situazione.

Come gestori di autostrade sono ormai impresentabili. Ma questo non risolve il problema: il conto finale di una soluzione avventata e troppo politicizzata rischia di essere pagati da risparmiatori, piccoli azionisti e lavoratori. Senza contare, ovviamente il discredito internazionale che si abbatterebbe sull’Italia visto che l’eventuale revoca o l’azzeramento forzoso della posizione della famiglia trevigiana evocherebbe lo spettro di un esproprio.

Piazza Affari, come sempre, ha sintetizzato dubbi e preoccupazioni in un numero. 11,36 euro è stata la quotazione finale di Atlantia, la holding attraverso cui i Benetton controllano Autostrade. Il calo rispetto a venerdì è del 15,19%, a 11,36 euro.

Secondo gli analisti in caso di revoca l’effetto per Aspi sarebbe l’ immediato fallimento. Un default da oltre 19 miliardi. Oggi si riunirà il board della holding della famiglia Benetton per discutere – senza necessariamente arrivare a un punto – delle ultime mosse del Governo e delle intenzioni fatte trapelare dal premier Giuseppe Conte. In un’intervista al Fatto Quotidiano, Conte etichetta la proposta di Aspi come “insoddisfacente” e “imbarazzante”

.Il mercato prende atto delle ultime parole di Conte, che danno un chiaro indizio circa l’intransigenza del governo. «I Benetton non hanno ancora capito che questo governo non accetterà di sacrificare il bene pubblico sull’altare dei loro interessi privati». La revoca della concessione rimane un’opzione forte con l’unica alternativa della totale uscita dei Benetton da Autostrade, di cui Atlantia detiene l’88%. Nei giorni scorsi si era invece ragionato su un aumento di capitale attraverso il quale la quota di Atlantia sarebbe scesa al 49%. I ceo di Atlantia e Autostrade, Carlo Bertazzo e Roberto Tomasi, confermano il progetto ma «a condizioni di mercato e nel rispetto dei soci di minoranza Allianz e Silkroad». Per raggiungere un accordo Atlantia «è disposta a rinunciare a una parte dei suoi diritti di opzione in presenza di un aumento di capitale».

Gli analisti quantificano il danno in caso di revoca. Non avendo più incassi la società non sarebbe più in grado di onorare il debito di quasi 10 miliardi. A catena l’impatto si ripercuoterebbe sui 9 miliardi di debito di Atlantia, che è garante di circa 5 miliardi di debito della controllata Aspi. L’ammontare di debito complessivo in default (oltre 19 miliardi) avrebbe serie conseguenze sui mercati obbligazionari e bancari europei. La maggior parte del debito è rappresentata da titoli detenuti da grandi investitori di debito internazionali, oltre che da grandi istituzioni finanziarie europee – come la Bei – e italiane, in particolare Cassa Depositi e Prestiti, Banca Intesa, Unicredit. Autostrade per l’Italia, peraltro, ha anche emesso un prestito obbligazionario da 750 milioni detenuto da circa 17.000 piccoli risparmiatori italiani.

Sarebbero diversi gli investitori coinvolti nel default di Autostrade. Fra i soci di Autostrade ci sono grandi investitori internazionali, come Allianz (7% ) nonché il fondo sovrano cinese Silk Road Fund (5% del capitale), oltre che da Atlantia stessa.Quest’ultima può essere annoverata tra le ‘blue chips’ della Borsa Italiana che conta oltre 40.000 azionisti, fra cui il fondo sovrano di Singapore Gic (8,1% del capitale), la Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (4,8% del capitale) e i maggiori investitori istituzionali internazionali del mondo – prevalentemente società di gestione di Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania e Australia – e i risparmiatori italiani. Lo scenario creerebbe quindi un precedente unico.


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