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È sufficiente osservare la curva degli investimenti pubblici destinati allo sviluppo infrastrutturale del Mezzogiorno per individuare la causa principale di una Italia spaccata in due: fra il 1950 e il 1960 la dote era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Ma non è finita qui: solamente nel 2018, mancano all’appello 3,5 miliardi di euro di investimenti per il Sud, calcolo effettuato dalla Svimez partendo dalla regola, spesso e volentieri, per non dire sempre, tradita del 34% della ripartizione delle risorse in conto capitale da destinare al Mezzogiorno.

Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che negli anni Settanta erano circa la metà di quelli complessivi, negli anni più recenti sono calati a un sesto di quelli nazionali. In valori pro capite, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro; nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro.

Fra il 2008 e il 2018 – aggiunge Banca Italia – gli investimenti fissi lordi della pubblica amministrazione sono calati del 20%, attestandosi a quota 37 miliardi, un taglio netto di dieci miliardi. E i sacrifici maggiori, neanche a dirlo, sono stati fatti dal Sud. Stesso copione anche nelle tabelle sugli investimenti pubblici in rapporto alla popolazione: la quota destinata al Mezzogiorno è risultata sistematicamente inferiore rispetto al Centro-Nord. Tra il 2008 e il 2016, sempre secondo i dati di via Nazionale, il calo degli investimenti al Sud è stato del 3,6% annuo; più debole e in maggior flessione rispetto al resto del Paese è stata anche l’attività di progettazione di opere pubbliche.

Eppure, sempre secondo uno studio di Banca d’Italia, un incremento degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno pari all’1 per cento del suo Pil per un decennio, ossia 4 miliardi annui, avrebbe effetti espansivi significativi per l’intera economia italiana. E’ questo il concetto che fa fatica a passare: uno sviluppo del Sud conviene al Paese intero. Nel Mezzogiorno il moltiplicatore degli investimenti potrebbe raggiungere un valore di circa 2 nel medio-lungo termine, ma anche l’economia del Centro-Nord ne beneficerebbe per via della maggiore domanda nel Sud e dell’integrazione commerciale e produttiva tra le due aree.

Insomma, aumentare gli investimenti pubblici al Sud arricchirebbe anche il Nord, con incremento del Pil fino allo 0,3%. In base all’art.119 della Costituzione l’operatore pubblico deve destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali per il perseguimento di finalità di riequilibrio territoriale. Nel dare attuazione a tale disposizione, la legge 42 del 2009 aveva anche stabilito che si dovesse prioritariamente procedere a una ricognizione dei fabbisogni infrastrutturali sul territorio (relativamente alle strutture sanitarie, assistenziali e scolastiche, alla rete stradale, autostradale e ferroviaria, a quella fognaria, idrica, elettrica, di trasporto e distribuzione del gas, nonché alle strutture portuali e aeroportuali). Questa ricognizione non è mai stata realizzata.

C’è davvero qualcosa che non va se, nel 2020, il 24% delle linee ferroviarie del Mezzogiorno è a doppio binario a fronte del 60% delle linee del Centro-Nord. Il 49% delle linee ferroviarie del Mezzogiorno è elettrificato a fronte dell’80% di quelle del Centro-Nord. Ma non è certo solo un problema di ferrovie: tra il 2010 ed il 2016 i porti del Mezzogiorno hanno registrato una flessione del 19% in termini di tonnellate movimentate, con un lieve recupero nel 2017, a fronte di un incremento dell’8% e del 3% rispettivamente al Nord ed al Centro.

Tra il 2004 e il 2014 la rete autostradale è aumentata, in termini di km, del 7% al Nord e del 3% al Sud. Anche i giudici della Corte dei Conti lo hanno ribadito per l’ennesima volta nel “Rapporto 2020 sul coordinamento della finanza pubblica”: “Non è ancora stabilito il percorso di superamento del criterio della spesa storica”. Tradotto, il Sud viene ancora scippato dei suoi soldi per infrastrutture, oltre che per asili, scuole e ospedali con il trucco delle tre carte. Non solo. “Le recenti istanze di regionalismo differenziato – si legge nel documento – rendono potenzialmente ancora più problematico il percorso verso un quadro stabile di federalismo simmetrico.

Anche per gli enti locali appare fermo il processo di definizione dei fabbisogni legati alle funzioni fondamentali, e molta incertezza, negli anni, si è manifestata sul ruolo di specifiche fonti di finanziamento”. Insomma, gli investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno rischiano di non allontanarsi troppo da quel 0,15% che grida giustizia. E ai 62 miliardi già dirottati verso le Regioni del Centro-Nord si aggiungeranno altre risorse. Al Mezzogiorno servono strade e ferrovie moderne, la sintesi del declino della spesa infrastrutturale in Italia e al Sud in particolare sta nel tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2018, che è stato pari a –2% a livello nazionale: –4,6% nel Mezzogiorno e -0,9% nel Centro-Nord.


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